Trasformazioni
L’editoriale di questo aprile 2018 riprende, continua e non ha alcuna pretesa di concludere il discorso aperto dall’editoriale di marzo, dal titolo Passaggi.
In questa prosecuzione parliamo di trasformazione (o trasformazioni) che si colloca come una accezione del passaggio, volendo una sorta di naturale conseguenza. Come possiamo definire la trasformazione? Una mutazione, un cambiamento, una variazione, una metamorfosi. Ci basta?
Il breve elenco di sinonimi fa presupporre una successione temporale: un prima e un dopo; un dopo necessariamente diverso, assolutamente altro.“Quello che il bruco chiama fine del mondo, il resto del mondo chiama farfalla”.
Al proverbio cinese l’artista americana Maya Angelou aggiunge: “Ci deliziamo nella bellezza della farfalla, ma raramente ammettiamo i cambiamenti a cui ha dovuto sottostare per raggiungere quella bellezza”.
Come sovente accade, il risultato di un processo è (può apparire) “meno importante” del processo stesso. E la trasformazione è sia un processo (una serie di passaggi, di fasi di modifica, di ripensamenti, di “quadrature”) sia il punto d’arrivo di un processo (la conquista, il raggiungimento di un nuovo “status”).
La trasformazione ha a che fare con la variazione della forma, cioè l’aspetto concreto di una “cosa”, sia essa un progetto o una persona. Così come la mutazione o la trasmutazione e il cambiamento. Sono minime le sfumature di significato di questi termini eppure ci riconducono tutte ad un contesto che definirei epico, come collocato in uno spazio ed in un tempo fuori di noi, lontano da noi.
Mi è subito venuto in mente l’incipit delle Metamorfosi di Ovidio: A narrare il mutare delle forme in corpi nuovi mi spinge l’estro o più semplicemente il primo libro della Bibbia, la Genesi: 2. Ora la terra era informe e deserta e le tenebre ricoprivano l’abisso e lo spirito di Dio aleggiava sulle acque.
(Particolare de “Prometeo ruba il fuoco celeste”, opera di un collaboratore di Peter Paul Rubens)
In entrambi si narra delle azioni divine che hanno trasformato il caos primigenio nella bellezza ordinata del mondo. Il racconto di un passaggio che segna un punto di non ritorno, la nascita di un universo con delle regole, delle presenze.
E ritorna il termine forma: per Ovidio i miti che raccontano le mutazioni degli dei, nella Bibbia un aggettivo potente per descrivere una natura non ancora nutrita dallo spirito di Dio.
Sono in tutti e due i casi righe piene di autorevolezza: descrivono un ambiente e un clima di attesa, transeunte, che aspetta di diventare altro. E che un po’ intimorisce.
Perchè il cambiamento spaventa: un cambio di vita come il cambio di lavoro o della città in cui risiediamo; un trasloco; per qualcuno, più banalmente, un taglio di capelli.
Una trasformazione può essere frutto di una scelta (voglio smettere di fumare, voglio dimagrire, voglio laurearmi) oppure naturale (cambio di stagione, cambio di temperatura) o legata alla società (cambiamenti culturali, antropologici, politici) o, ancora, niente affatto cercato: e qui penso all’incipit de La metamorfosi, di Franz Kafka.
Gregor Samsa, destandosi un mattino da sogni inquieti, si trovò trasformato, nel suo letto, in un enorme insetto. Se ne stava disteso sul dorso, duro come una corazza, e se sollevava appena il capo poteva vedere il suo ventre convesso, bruno, solcato da nervature arcuate, sulla cui sommità la coperta, pronta a scivolare del tutto da un momento all’altro, si manteneva a stento. Le zampe, numerose e penosamente sottili rispetto alle dimensioni del corpo, gli si agitavano imponenti davanti agli occhi.
E, infine, il cambiamento può non essere definitivo. Non sempre, ma a volte può essere necessario ripensare al cambiamento, rivalutarlo. Tornare indietro, percorrere una nuova strada.
A voler semplificare, la trasformazione è la metafora migliore per parlare della vita: un movimento incessante, una scoperta continua, un passaggio consecutivo verso altro, un raggiungimento di mete che diventano nuovi e più sfidanti traguardi.
Termino con l’immagine che – sarò sincera – per prima mi è venuta in mente pensando a questo tema: Jeeg Robot d’acciaio, il manga giapponese da cui venne tratta nel 1975 una serie anime televisiva di 46 episodi, che racconta del risveglio dal sonno millenario dell’antico popolo Yamatai che vorrebbe conquistare il mondo ma viene contrastato dal robot Jeeg.
Un briciolo di nostalgia d’accordo, ma una immediata rappresentazione di un cambiamento di forma, da uomo a cyborg, altro fenomeno trasformativo oggi di grande attualità.
Jeeg Robot cuore e acciaio sarebbe piaciuto di certo anche a Sir Winston Churchill che amava dire: “Non sempre cambiare equivale a migliorare, ma per migliorare bisogna cambiare.”
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