Cantare con i polmoni pieni di gioia

jeffUn paio di giorni fa mi è capitato di leggere due brani che nulla hanno in comune e che pure hanno continuato a rimbalzare nella mia testa per tutto questo tempo, come palline su un campo da ping pong. Il primo è un testo di Henry Miller, citato per intero (e non ho ancora capito il perché) all’interno del volume The Wilco Book (dell’omonima band). Il secondo è un testo breve di Jack Kerouac, scritto nel 1941. Non so cosa esattamente abbiano in comune, ma in un modo o nell’altro (complesso e però preciso), la gioia di cui parla uno, e la nostalgia evocata dall’altro, sembrano fare comunque orbita intorno a uno stesso cerchio, a un solo sfuggente punto. Che forse è il punto in cui arte e vita si incontrano, si specchiano e si sorridono, riconoscendosi l’una nell’altra.
«Che tu ti metta a dipingere fiori, stelle, cavalli o angeli, in ogni caso comincerai a provare rispetto e ammirazione per ogni elemento del nostro universo. Lo prenderai per ciò che è, e ringrazierai Dio che sia esattamente ciò che è. Rinuncerai a migliorare il mondo, o te stesso. Imparerai a vedere non quello che tu vuoi vedere, ma quello che il mondo è […]. Dopotutto, ci viviamo da poche centinaia di milioni di anni […] e dall’inizio alla fine l’universo rimane ancora per noi un mistero. Il mistero esiste e si sviluppa in ogni sua più piccola parte […]. La questione, nel momento della creazione di una nuova opera d’arte, dunque, è: “In ciò che vediamo, c’è più di quello che riusciamo a vedere solo con gli occhi?”.  E la risposta è sempre sì. Persino nell’oggetto più umile possiamo trovare ciò che cerchiamo – bellezza, verità, realtà, divinità – e  queste qualità non le crea l’artista: lui le scopre soltanto, nel momento in cui inizia a dipingere. Quando si rende conto di questo, allora può continuare il suo lavoro senza paura di sbagliare perché capisce che a questo punto, che lui continui a dipingere o no, non fa più differenza. Uno non si mette a cantare perché spera un giorno di apparire all’opera; uno canta perché i suoi polmoni sono pieni di gioia.
È meraviglioso ascoltare una grande esibizione ma è ancor più meraviglioso incontrare lungo la strada un vagabondo felice che non riesce a smettere di cantare perché il suo cuore è pieno di gioia. Ed il vostro felice vagabondo non si aspetta nessuna ricompensa per il suo sforzo. Lui non sa neanche cosa voglia dire, lo sforzo. Nessuno può essere pagato per donare la propria gioia, la gioia è sempre data liberamente».
(Henry Miller, The Angel is My Watermark)
«Una domenica pomeriggio di luglio sentii la musica di un violino che veniva dalla radio in cucina. In quel momento stavo seduto nella mia stanza con gli occhi fissi sull’ombra di una finestra. La canzone era To a Wild Rose e nell’attimo in cui la sentii sapevo dov’ero:
Ero in piedi all’angolo della quarantaquattresima strada a Broadway a New York di sabato pomeriggio, in primavera, direi. In piedi vicino al mercatino, tutti mi oltrepassavano veloci con gli occhi incollati su se stessi e non sulla vita. I miei occhi erano incollati sulla vita, in quel preciso momento, perché un vecchio con i capelli bianchi stava in piedi sul marciapiede e suonava il violino. Era To a Wild Rose. Quando l’ebbe finita suonò la ninnananna di Brahams. Quando fu terminata ricominciò con To a Wild Rose, forse perché quelle erano le sole canzoni che conosceva, o forse perché era cieco e non avrebbe mai visto una rosa selvatica. In ogni caso suonò To a Wild Rose, realmente e letteralmente.
I miei occhi erano incollati sulla vita.
Ed erano pieni di lacrime».
(Jack Kerouac, da Diario di uno scrittore affamato)
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  1. Andrea Monda ha detto:

    il testo di Miller è sublime. Viene la voglia di leggere i suoi romanzi. E’ la seconda volta che mi imbatto nelle sue riflessioni infatti, e anche la prima mi aveva molto colpito: “L’arte non insegna assolutamente niente, a parte il senso della vita”. Bello!

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