Volevo attraversare un piccolo lago

inaltrewordsVolevo attraversare un piccolo lago. È veramente piccolo eppure l’altra sponda mi sembra troppo distante, oltre le mie capacità. Ho incontrato Jhumpa Lahiri in occasione di uno degli appuntamenti pomeridiani del Festival delle Letterature (non me la sento di dire “conosciuto”; le ho chiesto a malapena un autografo, dopo aver scattato una foto per il profilo twitter della manifestazione, quasi certo di violare uno spazio che non mi era concesso). Confesso di essere rimasto colpito dal suo fascino oltre che dagli argomenti della sua relazione. Di mattina osservo quelli che vengono al lago come me. Vedo come lo attraversano in maniera disinvolta e rilassata, come si fermano qualche minuto davanti alla casetta, poi tornano indietro. Conto le loro bracciate. Li invidio. Nei giorni successivi, ho divorato in fretta In altre parole (Guanda, 148 pagine, 14 euro), il libro in cui Jhumpa Lahiri racconta l’amore per la lingua di Petrarca e Boccaccio, che ha studiato a lungo prima di decidere di trasferirsi a Roma con la famiglia. Un corteggiamento durato oltre vent’anni che ha preso forma in una collezione di immagini e metafore con cui la scrittrice di origini bengalesi prova a raffigurare il sentimento, il desiderio da cui è stata travolta. E così anche il timore, la paura di non essere all’altezza della sfida che ha dinanzi, la fragilità degli strumenti in suo possesso. Il mio è un innamoramento un po’ particolare. Resta un amore non corrisposto. Io amo la lingua, ma la lingua rimane così. Senza alcun bisogno di me. Ne ho parlato molto ai miei amici, ho provato a scriverne, ma sempre con l’impressione di non riuscire a centrare il nocciolo della questione. Fino quasi a rinunciare.

Qualche mese fa io e Tiziana abbiamo incontrato la nostra amica Chiara Mezzalama, trasferitasi a Parigi per concentrarsi su alcuni progetti di scrittura (Il giardino persiano è il nome del suo ultimo romanzo – Edizioni E/O, 208 pagine, 17 euro); quando Chiara torna a Roma capita di approfittarne per cenare assieme ad altri amici dell’associazione Piccoli Maestri e trascorrere qualche ora assieme. So che Chiara conosce bene Jhumpa Lahiri, ma la prendo alla larga, mi limito a chiederle se stia provando ogni tanto a scrivere qualcosa in francese. Chiara sorridendo confessa che ha una cosa per la testa a cui si sta dedicando, un po’ per gioco un po’ per amore. Scrivere in un’altra lingua è un po’ come indossare una maschera mi risponde quando le chiedo quali siano le sue sensazioni. Ho dovuto aspettare qualche giorno per cogliere il senso delle sue parole; l’illuminazione è arrivata mentre sorseggiavo l’ennesimo campari gin al baretto del paese dei miei genitori. Chiara come Jhumpa (buffo, immagino Jhumpa sia il nome ma non ne sono sicuro) ha avvertito qualcosa di speciale – un disagio, un’emozione – nello scrivere in una lingua diversa dalla propria e ha sentito il bisogno di dare una forma a quella sensazione. E inconsciamente deve aver scelto di affidarsi alle immagini, alle metafore, a un linguaggio in qualche modo superiore alla lingua che ha abbracciato, come a quella che ha, anche solo per un momento, tradito. La maschera a cui fa riferimento Chiara Mezzalama, il lago e il bosco che disegna nel libro Jhumpa Lahiri, sono concetti universali, capaci di ricondurre su un sentiero comune scrittrici di origini diverse, alla ricerca di una identità nuova. Sorprende la semplicità con cui ci si ritrova nel racconto delle loro emozioni, anche non avendole vissute. L’imbarazzo, lo spaesamento, la sensazione di fragilità che racconta Jhumpa Lahiri, premio Pulitzer nel 2000, diventano propri del lettore e fa piacere, molto, scoprire che tale tormento emotivo nasca dalla scoperta della lingua italiana.

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