Luisito Bianchi: un ricordo

Don Luisito Bianchi* è morto il 5 gennaio scorso.
L’incontro con lui è stato per me folgorante: La Messa dell’uomo disarmato è un romanzo che apre orizzonti senza limiti, letterariamente straordinario, spiritualmente immenso. Nel tentativo di spiegarlo a me stesso, e consentirgli di leggermi dentro, ne ho scritto con entusiasta meraviglia (vedi la sezione Monografie in questo sito). Inizia da allora un non frequente ma intenso colloquio epistolare: non ci siamo mai incontrati di persona, ma mi piaceva pensare di essere un suo amico. Ovunque, nelle sue lettere, così come nelle sue opere letterarie e nei suoi saggi, un ustionante amore per l’uomo, ed un’inesausta tensione all’offerta di sé: come altrimenti rendere vero quel “gratis accepistis, gratis date” che orientava in senso profetico la sua fedeltà alla Chiesa e guidava il suo cammino nel mondo ?
Con mite fermezza ha proclamato il cristianesimo più radicale, intriso di passione per Dio e per gli uomini, della quale si rintracciano segni già nell’infanzia, età solo apparentemente inconsapevole. Dell’umile serenità di quel tempo ha, infatti, raccontato in una delle sue ultime opere (quanto meno nella sua ultima edizione), Le quattro stagioni di un vecchio lunario, alla quale a volte in questi giorni ritorno, per essere meno solo.

Le quattro stagioni di un vecchio lunario.

Un nipote in bicicletta nelle calde giornate dell’estate padana porta al nonno nei campi la sporta con il vino (opportunamente allungato dalla nonna), ed il nonno la domenica ricambia sacrificando per il gelato del nipote parte della paga settimanale che la nonna “reggitora”della cassa familiare gli concede per i “vizi” innocenti cui indulge all’osteria. Questo episodio, tra i tanti, può essere evocato come sintesi rappresentativa di buona parte degli elementi che formano il fascino dell’ultimo libro di Luisito Bianchi Le quattro stagioni di un vecchio lunario (Sironi 2010): verità di affetti e sentimenti, vita dei campi, semplicità ed intensità di rapporti umani e specialmente familiari. L’autore ritorna al mondo che costituisce lo sfondo del suo La messa dell’uomo disarmato, straordinario romanzo sulla Resistenza, di cui solo alla seconda uscita per i tipi di Sironi, nel 2003, e dopo una prima edizione trascurata da una critica a dir poco distratta, è stata apprezzata l’eccezionalità: “… un capolavoro (sì un capolavoro) complesso e multiforme che affronta la Resistenza sia nella sua accezione storica sia in un senso civile e filosofico …” (così Di Stefano sul Corriere della sera del 17 marzo 2003). Bianchi aduna per il suo Lunario una ricca messe di ricordi di un’infanzia vissuta in un’epoca (l’immediato anteguerra) che a noi pare remota per la fuga vorticosa degli anni, ma ancor più per usanze, abitudini, modi di fare e di dire, modalità, verrebbe da dire, di uso e di godimento della quotidianità più ordinaria. Non deve tuttavia trarre in inganno la patina di antico che vela le storie del Luisito di allora: a mano a mano che ci si inoltra tra le vie e i campi del suo paese, Vescovato, si avvertono echi, risonanze arcane e pur ancora indistintamente presenti, che senza parere riecheggiano ad intermittenza nelle nostre giornate, pur così convulse ed avvelenate da rapporti umani spesso precari e contorti, e di cui libri come questo rintracciano le origini.
L’autore restituisce, con l’immediatezza di una scrittura tersa ed avvolgente, la verità di entusiasmi ed ingenuità, curiosità ed affetti del bambino Luisito. I giorni che un’età irripetibile colora di innumerevoli suggestioni diverse, originate dalla percezione del mondo come integralmente nuovo, si dipanano attraverso la cadenza lenta ed antica delle stagioni. La vita in campagna è scandita dal ritmo della natura, e su di esso i bambini di Vescovato percepiscono lo scorrere del tempo. Ma le stagioni hanno anche un’altra scansione, nel cuore profondo della provincia italiana di oltre settant’anni fa: il ritmo calmo della liturgia, altrove ed in altre epoche perfino maestoso, ma qui umile, quanto mai terreno e concreto, e soprattutto intimamente coerente con l’altro, quello della terra. Così, tutto si misura sul tempo delle celebrazioni, dei santi e delle ricorrenze, e su quello parallelo, a volte identico, dei campi, delle semine e dei raccolti.
Con arguzia sorridente e partecipata simpatia (motivo quest’ultimo particolarmente consonante con la descrizione dell’umanità presente in La messa dell’uomo disarmato), Bianchi dà corpo ad uno stuolo di figure e figurine di amichetti e paesani, con un gusto per il bozzetto che rinvia direttamente ad una tradizione illustre della nostra letteratura, ma di cui da un po’ di tempo è difficile rintracciare apprezzabili segnali, e che caratterizza soprattutto la seconda parte del libro, Piccoli schizzi di care memorie.
La memoria dell’autore ritorna anzitutto a quella famiglia ampia e patriarcale nella quale il bambino di allora cresceva riconoscendo grande parte del suo universo. Dei genitori e dei nonni, tra i quali si attua netta la separazione dei compiti e dei ruoli nell’Italia contadina di allora, si raccontano episodi anche minimi. La loro somma costituisce altrettanti ritratti, realistici eppure circonfusi da quell’aura di esemplarità che la distanza negli anni asseconda: principalmente, la comprensività affettuosa della mamma, la religiosità forte ed ingenua della nonna, che avvolge ogni momento dell’esistenza, lo spiega e lo sostanzia, la taciturna bonomia con cui il nonno governa cascina e famiglia.
A un bambino di paese, che con l’immaginazione supplisce egregiamente alla penuria dei mezzi, la vita di campagna offre numerose occasioni di gioco, godute con immutata intensità pur nel variare del clima e nell’alternarsi delle stagioni: trova facilmente il modo di giocare, che siano le gare “alla lippa”, o le invernali scivolate nei fossi, o ancora rivivendo come gioco molti dei lavori degli adulti, dalla cura con cui si vigila sulla cova pasquale alla pigiatura settembrina. Tanti sono poi gli stupori che può percepire, trattenendoli poi per la vita nella memoria, senza che il tempo possa anche solo minimamente scalfirne la freschezza originaria: memorabili le impressioni di Luisito nell’avvertire l’imminenza del Natale, un Natale in cui la festa familiare (e del paese, perché il sentire è qui davvero comune) è autentico riflesso sentito e meditato, misurato su simboli e conseguenti usanze di elementare comprensione, del mistero del precipitare del divino nella storia degli uomini. Ancor più memorabile è poi la descrizione del primo sentore di primavera, in cui il piccolo contadino percepisce tutta intera una misteriosa contiguità con il pulsare della vita dei campi, quando il corpo “sentiva di vivere fin nel mignolo sinistro” e “l’aria non era ancora tiepida ma si sentiva che conteneva già un po’ di fiato della terra i cui polmoni stavano per mettersi in moto”, e “per cogliere questo respiro non bastava l’orecchio, ci voleva tutto il corpo come quando vuoi sentire tu stesso il tuo cuore”.
I ricordi di Bianchi non inclinano al rimpianto, sono invece permeati da un senso di cordiale simpatia verso gli anni dell’infanzia, come un’onda che investe il se stesso di allora, e subito si propaga al minuscolo universo nel quale abita il piccolo Luisito, persone, cose, fatti. Non sono dunque gesti straordinari a popolare le memorie di Bianchi, ma episodi e sensazioni da custodire e di cui fare scorta: un’epica delle cose minime pervade le storie di questo Lunario, canto alla vita che rasserena e al tempo stesso fortifica.

(da Stilos, febbraio 2011)

* Don Luisito Bianchi (1927 – 2012), dopo l’ordinazione sacerdotale, è stato portantino in ospedale, operaio, insegnante, traduttore e scrittore. Ha pubblicato, tra gli altri, Salariati (1968), Dialogo sulla gratuità (1982), Monologo partigiano sulla gratuità (2004), La Messa dell’uomo disarmato (2003), Come un atomo sulla bilancia (2005), I miei amici (2008), Le quattro stagioni di un vecchio lunario (2010).

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