Preposizioni – “PER”
Il bello del PER è che a pronunciarlo ci vogliono poco meno di tre secondi e che, superata la erre, è difficile non immaginarsi una meta. Sei fermo in un punto, non importa quale, e grazie a quella parolina la tua testa può rimbalzare fino ai piedi di un igloo, nella cesta di una mongolfiera o semplicemente a due isolati da casa, dove c’è il supermercato e nel supermercato i pomodori che ti occorrono per la cena. Dopotutto, perché no, anche un piatto di pasta può essere una meta.
Ma le mete, si sa, non sono soltanto luoghi più o meno vicini. Possiamo essere noi, quando giochiamo a trasportarci nel futuro e a vederci tra dieci o venti anni con un sogno che, realizzato, ci calza perfettamente addosso. In entrambi i casi capiamo che quella preposizione sembra nata per proiettarci all’esterno, per darci una spinta in avanti, perché pensare a una destinazione significa anche scovare il modo per raggiungerla, figurarsi il cammino e poi trovarcisi dentro.
E qui può succedere di tutto. Lungo la strada, in effetti, si cambia, si perdono cose, ancor peggio ci si può tradire. Penso ai tanti Basquiat, a quelli che per essere ciò che vogliono devono agire non solo per se stessi ma per qualcuno, per un pubblico senza il riconoscimento del quale si resta nomi ricordati sottovoce tra un colpo di tosse e una sigaretta. Penso al momento in cui le aspettative dell’altro si fanno talmente invadenti da farci dimenticare le responsabilità che abbiamo verso noi stessi, verso il fatto che la ricerca della verità, la propria, è una questione che, almeno al 70%, va risolta al singolare. E allora penso a tutti quelli che finiscono con l’odiarsi o che, come forse fu per Salinger, si sono chiusi nel loro sacrosanto metro quadrato per non sentire più nulla. Così inizio a credere che se a tutta prima il PER sia l’impulso al cambiamento, all’accumulo di esperienze e quindi alla moltiplicazione, sia anche quella parola che più di altre ci costringe a misurare i nostri confini. E’ il limite: ci dice che non siamo contenitori senza bordo e che per arrivare, magari col fiatone, ma non senza la risata perfetta, dobbiamo calcolare bene le somme, ma soprattutto le sottrazioni.
“Dopotutto, perché no, anche un piatto di pasta può essere una meta.”, sottoscrivo.
Il bello è che PER (come hai ben indicato nell’editoriale, è sia la meta che il viaggio che la partenza, cioè con questa parolina noi indichiamo sia il prima (la causa), il durante (l’attraversamento) che il dopo (la/il fine), mica male per sole tre lettere…
Le rotaie del “per” sono affascinanti, si possono percorrere verso l’esterno come verso l’interno. In ogni caso ci conducono al punto X: alla massima concentrazione (l’incrocio dei due assi) o a un’infinita fuga di forze, all’avventurosa ricerca del tesoro… alla X posta sulla mappa di un mondo ignoto.
Attenti a non finire però come certe “culture” dove la meta del viaggio è il viaggio stesso: un’idea che si porta dietro l’impossibilità dell’incontro con la verità “antropologica”, che essendo tale è molto meno “propria” di quello che si pensa, quando si rimane attorno al “proprio” ombelico…che poi invero tutti c’hanno.
d’accordo con te, Stefano, una cosa è gustarsi il viaggio, una cosa e non partire proprio! (anche perchè senza meta PER dove si parte?)