Le luci in ufficio alle otto di sera
Capita a volte di far tardi a lavoro, per una consegna improvvisa, per riavviare un server che non posso gestire da casa. Mamma si preoccupa del fatto che rimanga da solo (verrebbe lei a farmi compagnia se solo vivesse a Roma), le spiego sorridendo che in fondo non mi dispiace. Avverto un senso di pace la sera in ufficio, quando tutti gli altri sono usciti, quando pure il condizionatore dell’aria ha smesso di fare rumore. Mentre completo le operazioni di manutenzione, alcune richiedono svariati minuti di attesa forzata, passeggio per i corridoi, pulisco la macchinetta del caffè, controllo nel frigo se tra i vasetti di yogurt qualcuno è scaduto. Penso che se ci fosse un televisore, se ci fosse un divano, potrei ordinare una pizza, levarmi le scarpe, indossare qualcosa di comodo per la sera. Che senso ha poi, a pensarci, attraversare mezza capitale per tornare la mattina dopo?
Poco dopo essermi trasferito a Roma ho scritto una breve storia basata sulla mia vita in ufficio. Lo spunto è nato frequentando un corso di scrittura, dovevo raccontare un’esperienza sotto forma di reportage narrativo. Parlare dei miei nuovi colleghi, delle loro abitudini, di certi tormentoni che animavano le pause caffè mi era sembrata la scelta più naturale. Mi ci stavo affezionando, anche per via del fatto che in città non conoscevo ancora nessuno e avevo bisogno di un posto in cui sentirmi a casa. Tra l’altro, coltivando da sempre una discreta attenzione per dettagli del vestire (scarpe, orecchini, bordi di camicia sfuggiti al rigore della cinta dei pantaloni) o per certi modi di camminare, di impostare la voce, la mia curiosità incrociava a lavoro, incrocia tuttora, un capitale umano di inestimabile valore. Ho riempito pagine parlando di scrivanie, quelle ordinate con cura, quelle che ricordavano le pareti delle stanze universitarie, quelle spoglie che non rivelavano nulla di chi le abitava, ho raccontato le partite a pallone del giovedì sera, il sistemista che puntualmente dava buca. Ma c’era un aspetto fondamentale che non avevo ancora capito – beata gioventù, beata illusione – e cioè quanto il nostro essere lì potesse influenzare il nostro essere fuori da lì; quanto il sentirmi a mio agio, realizzato o frustrato in ufficio, potesse influenzare l’umore a casa, nel fine settimana. Come un contenitore che viene agitato, come un enorme frullatore, in cui ciascuno porta delle cose, il proprio carattere, le proprie passioni, il proprio desiderio di scappare e, comunque, in ogni caso, viene travolto da un’onda, quando pensa di essere al sicuro, quando crede di essere stato bravo a non mischiare gli affetti con il lavoro.
Terminato il corso, il progetto di scrittura si è arenato: la carenza di figure femminili nel reparto tecnico, legata a una vecchia politica interna (per fortuna) ormai superata, rendeva complesso lo sviluppo di una trama. Se dovessi tornarci adesso, trascorsi sei anni, mi concentrerei su aspetti diversi, punterei la telecamera non sulle persone, ma sulla distanza che le separa, sulle infatuazioni non corrisposte e su altre che aleggiano nell’aria; punterei lo sguardo sul bisogno di alcuni di sentire riconosciuta la propria autorità al momento di prendere una decisione, racconterei gli scambi di messaggi nelle liste WhatsApp, i gruppi che si formano per andare a mangiare. Tutto il circolo di sentimenti ed emozioni dalle nove di mattina fino a quando l’ultimo chiude a chiave. Un amico con cui ne parlavo stamane attribuisce la mia attuale difficoltà, intesa più come pigrizia, nel mettere a fuoco soggetti in ufficio che pure conosco da sempre, alla convinzione che potrei aver maturato nel tempo di averli compresi. Non so se è vero, so per certo che mi sono abituato a incontrarli ogni mattina, che so come pormi, ho chiaro qual è il mio personaggio all’interno del microcosmo aziendale. Per il mio fabbisogno di serenità quotidiano questo tipo di conoscenza è di estremo valore, ragion per cui vivo male notizie di dimissioni e nuovi arrivi; dover abituarmi a un’altra persona, al suo modo di vestire, parlare, dover imparare a ridere alle sue battute, dover affezionarmi a una nuova risorsa che, come la precedente, un giorno se ne potrebbe andare: ogni volta mi sembra come dover imparare nuovamente a nuotare. Allora invento un motivo per trattenermi fino a tardi, aspetto che tutti gli altri siano usciti, che pure il condizionatore dell’aria smetta di fare rumore e passeggio per i corridoi, accosto le sedie, spengo le luci. Riporto l’ordine dove hanno gli altri hanno disseminato confusione.
Dalla quarta di copertina di un romanzo di Joshua Ferris (E poi siamo arrivati alla fine, Neri Pozza editore).
Carl, Karen, Benny, Amber, Jim, sanno tutto di tutti. Sanno che Tom è pazzo, e che Lynn, il boss, ha un tumore al seno. Sanno che il vecchio Brizz se la passa male ed è finito nella classifica di Quale vip muore prima, anche se non è una celebrità. Sanno chi ha nascosto il sushi dietro la libreria di Joe. Sanno con chi se la prende Marcia quando ha inviato una mail a Genevieve in cui c’è scritto: «È davvero irritante lavorare con persone irritanti». Conoscono ogni pettegolezzo, ogni storia d’amore, ogni invidia e segreta generosità. Sanno chi è nelle grazie del capo e chi verrà fatto fuori. Sanno tutto di tutti perché quell’ufficio è ormai la loro vita. E in quelle stanze, tra corridoi e scrivanie, scopriamo un mondo, l’universo intero della nostra gioia e del nostro scontento, l’affetto e la competizione, la struggimento e il disprezzo, il desiderio e la privazione, in fondo la vita stessa, perché nessuno ci conosce davvero quanto le donne e gli uomini che ogni giorno ci siedono accanto.
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