Ripartire dalle storie
Abbiamo bisogno di storie per salvarci in questo 2021. Nel 2020 hanno trionfato le statistiche e i decreti, le norme e le regole. Cose necessarie. Ma per salvarci abbiamo bisogno di esperienze, racconti e persino poesia. Per vivere e affrontare il dramma abbiamo bisogno di senso.
In mezzo a tanti auguri densi di retorica, di buoni propositi e di immancabili polemiche, lo spunto più illuminante – di certo non il primo – l’ho ricevuto da un tweet di Antonio Spadaro. Senza dubbio, l’anno appena trascorso è stato l’anno dei bollettini, di una comunicazione asettica e anestetizzata, dove i numeri si sono inevitabilmente sostituiti ai volti, mentre la narrazione degli eventi è stata affidata essenzialmente a curve e indici. Per interpretare la realtà abbiamo fatto ricorso al presenzialismo degli esperti, che, almeno nella maggioranza dei casi, hanno ceduto alle lusinghe televisive, andando ben oltre i confini delle loro competenze e, appunto, esperienze.
E tuttavia nessun bollettino, per quanto terribile, ha conservato la potenza e l’efficacia dell’immagine di una colonna di carri militari che attraversavano il centro di Bergamo con il loro nefasto carico. Perché in quella foto è compresa una storia, che va oltre il mero dato fattuale. Scriveva Saba in una delle sue Scorciatoie:
I fatti preesistono. Noi li scopriamo, vivendoli.
Vivere è raccontare, perché solo attraverso il racconto si può dare forma all’esperienza, andando a riempire i fatti – di per sé vuoti – con l’interpretazione. Il tecnico vede i fatti, li ordina e desume teorie, che possono addirittura essere corrette. È in virtù di simili teorie che vengono creati in laboratorio i vaccini: senza la tecnica non potremmo sopravvivere.
Tuttavia la sopravvivenza non è che il primo stadio della vita animale, condizione certamente necessaria, ma non sufficiente per dare senso alle nostre esistenze. Quando Bastiano, ne La storia infinita, arriva nella città argentata di Amarganta, alla costernata popolazione cittadina, che lamenta l’assenza di storie nuove, fa dono di un racconto che contenga al suo interno infinite altre narrazioni. È la storia della biblioteca di Amarganta e, una volta terminata, suscita una reazione inattesa:
“Bastiano Baldassarre Bucci”, disse, “tu ci hai regalato ben più di una storia e ben più di tutte le storie che avresti potuto raccontarci. Ci hai regalato le nostre origini. Ora sappiamo da dove vengono Muru, le nostre navi d’argento e i palazzi che stanno sul lago. Ora sappiamo perché da tempi immemorabili siamo un popolo di cantori e di narratori (…)”.
Bastiano giunge in una Fantàsia distrutta dal Nulla, un nemico invisibile come un virus, che cancella ogni cosa senza lasciare niente, né oscurità né vuoto (che già sarebbero “qualcosa”), perché come afferma Mork, il servo del Male che favorisce la propagazione del Nulla, “è più facile dominare chi non crede in niente“.
Guardando indietro al 2020, le parole di Mork sembrano quasi riferirsi a negazionisti, complottisti e creduloni vari, che non credendo più a nulla finiscono per credere a tutto. Persone che, per affidarsi alle parole di Chesterton, non hanno smarrito la ragione, ma hanno smarrito tutto fuorché la ragione. La loro ragione li spinge a vedere significati dove non ve ne sono, esercitando un dubbio asincrono, che problematizza le “verità ufficiali”, ma accetta senza necessità di prova ogni sedicente “teoria non ufficiale”.
Come gli abitanti di Fantàsia, anche noi necessitiamo di un senso che possa riempire il vuoto creato dal Nulla. Per salvare Fantàsia, Bastiano deve colmare quel vuoto, desiderando qualcosa. Dai suoi desideri nasce la vita, ma è vita inconsapevole di se stessa, che necessita di racconti. I fatti preesistono, ma hanno bisogno di senso.
A ogni desiderio, tuttavia, Bastiano perde qualcosa di sé: ottenebrato da un potere semi-divino, smarrisce ciò che lo rende umano, ossia i propri ricordi. Quando i ricordi terminano, Bastiano cessa addirittura di avere un nome e regredisce a quella fase primaria dell’esistenza cui si faceva riferimento poc’anzi, ossia la sopravvivenza. La sua vicenda ricorda un passo tratto da Un’ombra ben presto sarai, di Osvaldo Soriano, in cui i protagonisti, impegnati in un gioco d’azzardo, non avendo nessun bene da giocarsi, decidono di puntare i propri ricordi:
– Una volta mi sono innamorato in maniera disperata – fu la mia offerta.
– Si sarebbe ucciso per lei?
– Mi vede, sono ancora qui.
– Allora deve tirar fuori qualcosa di meglio. Deve essere un bel ricordo… Un viaggio in nave, un’isola deserta, che ne so…
E così via. I ricordi dell’uno, attraverso il gioco e il racconto, cambiano proprietario e diventano esperienza comune.
Potenza della narrazione. Le storie raccontano di noi, ma allo stesso tempo ci trascendono, allargano il campo della nostra visione a esperienze che sono fuori di noi. Il protagonista de La storia infinita lascia un pezzo di sé in ogni racconto e in ogni – uso distorto del – desiderio, uscendo totalmente di sé e di senno. Noi, più semplicemente, attraverso le storie, troviamo nuovi angoli per la nostra visuale, che ci consentano di uscire, invece, dal dominio assoluto dell’ego, per aprirci a interpretazioni altre.
Al contempo, dall’ascolto delle esperienze altrui, comprendiamo meglio la nostra, in un circolo infinito di rimandi. Il riconoscimento dell’altro ci spinge all’apertura di un senso che trascende la nostra autoreferenzialità e, proprio per questo, contribuisce a creare un senso comune, che è anche il nostro senso. È una promessa reciproca che si rinnova ogni volta che osserviamo il mondo che ci circonda.
Tutto il mondo ci parla con le sue storie. Il punto è avere orecchie per ascoltare e occhi per vedere. E bocca per raccontare a nostra volta.
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