OpenLab virtuale – pt. 7 e 8: Yourcenar e Lodoli

Prosegue l’OpenLab nella sua versione virtuale, adatta al momento che stiamo vivendo e sperimentazione di un “modello” per la condivisione e il commento di un testo a distanza.

Cecilia: Memorie di Adriano (Marguerite Yourcenar)

Non appena egli cominciò a contare nella mia vita, l’arte ha smesso di essere un lusso, è diventata una risorsa, una forma di soccorso. Ho imposto al mondo questa immagine: oggi, esistono più copie dei ritratti di quel fanciullo che non di qualsiasi uomo illustre, di qualsiasi regina. Sulle prime, mi stava a cuore far registrare dalle statue la bellezza successiva d’una forma nel suo mutare; in seguito, l’arte divenne una specie di magia, capace di evocare un volto perduto. Le immagini colossali mi sembravano un mezzo per esprimere le vere proporzioni che l’amore conferisce agli esseri; queste immagini, le volevo enormi come un volto visto da vicino, alte e solenni come le visioni degli incubi, pesanti come il ricordo che mi perseguita. Esigevo una finitezza perfetta, una perfezione assoluta, quella divinità che rappresenta per coloro che lo hanno amato ogni essere morto a vent’anni; e, oltre la somiglianza esatta, volevo la presenza familiare, tutte le irregolarità di un viso più caro della bellezza stessa. Quante controversie per stabilire l’esatto spessore di un sopracciglio, la curva lievemente tumefatta d’un labbro! Contavo disperatamente sull’eternità della pietra, sulla fedeltà del bronzo, per perpetuare un corpo perituro o già distrutto, ma insistevo anche perché il marmo, a cui facevo dare ogni giorno una politura d’olio e d’acidi, assumesse la lucentezza, quasi la morbidezza delle carni adolescenti. Quel viso unico lo ritrovavo dappertutto: amalgamavo le persone divine, i sessi e gli attributi eterni […] I miei scultori vi si smarrivano; i più mediocri cadevano qua e là nella mollezza o nell’enfasi; tuttavia, tutti, più o meno, hanno partecipato al mio sogno.

Nelle ore di insonnia, percorrevo i corridoi della Villa, erravo di sala in sala, […] mi fermavo davanti ai simulacri del morto. Ogni stanza aveva il suo, ogni portico perfino. Facevo schermo con la mano alla fiamma della mia lampada; sfioravo con un dito quel petto di pietra. Questi confronti rendevano più arduo il compito della memoria; scostavo come una tenda il candore del marmo pario e del pentelico, risalivo alla meglio da quei contorni immobili alla forma viva, dal freddo marmo alla carne. Proseguivo nella mia ronda; la statua interrogata ripiombava nell’oscurità. A pochi passi da me, la lampada mi rivelava un’altra immagine; quelle grandi figure bianche non si distinguevano quasi dai fantasmi. Pensavo amaramente agli esorcismi mediante i quali i sacerdoti egizi avevano attirato l’anima del defunto dentro i simulacri di legno di cui si servono per il loro culto; avevo fatto anch’io come loro, avevo stregato pietre che mi stregavano a loro volta; non sarei sfuggito mai più a quel silenzio, a quel gelo che ormai mi era più vicino che non il calore, la voce dei vivi; guardavo quasi con rancore quel viso insidioso, dal sorriso sfuggente. Ma, poche ore dopo, nel mio letto, risolvevo di ordinare a Papias di Afrodisia una nuova statua; avrei voluto un modellato più adatto delle sue gote, là dov’esse, insensibilmente, si incavano sotto la tempia, un’inclinazione più lieve del collo sulla spalla […].
Ho scelto questo testo perché, a distanza di anni dalla prima volta che lo avevo letto, riuscivo a ricordare le esatte parole con le quali il narratore prova a descriverci il giovane che amava. E non rimane impressa la figura completa del ragazzo, ma solo quei dettagli che lo scalpello degli scultori non pare poter riprodurre. Mi piace pensare che in qualche modo il protagonista sia riuscito nell’intento che sembra perseguire in modo così ostinato e disperato. Eppure credo che il messaggio del testo sia chiaro: nulla, né il potere di “imporre al mondo un’immagine”, né lo sguardo quasi aristotelico del filosofo che permette di osservare “una forma nel suo mutare”, né l’amore che “conferisce agli esseri le vere proporzioni”, può rendere davvero immortale o restituirci una persona. D’altronde già da subito il lettore coglie il carattere illusorio della pretesa di ottenere una statua simile al caro estinto e allo stesso tempo perfetta, ma sono il silenzio e il buio della notte che portano il protagonista a fare i conti con la realtà. L’arte, il mezzo che più di tutti dovrebbe servire a lasciare un segno delle persone nell’eternità, non può dargli ciò che desidera, dal momento che le sovrastrutture del pensiero, non meno dei limiti della tecnica e della materia, falsificano e sostituiscono il ricordo quando questo sfuma.

Valerio

Parto dalla fine: mi colpisce molto questo rimembrare per luoghi (la tenda, la statua, la lampada…). I luoghi sono spettatori muti di migliaia di esistenze, amori, passioni, tradimenti, atti di bontà o di malvagità. Si dice spesso che se i luoghi potessero parlare avrebbero un immenso bagaglio di storie; in realtà, esattamente come nel testo proposto, i luoghi ci parlano di continuo, facendo riaffiorare i nostri ricordi, ma anche memorie che non sappiamo e crediamo non ci appartengano.
E poi mi colpisce questa insopprimibile/irraggiungibile esigenza di raffigurare la perfezione, di fissare il ricordo nel marmo. L’inutile tentativo del narratore di ritrovare la calda vita nella fredda pietra mi ricorda Il ritratto ovale di Poe, ossia la storia di quel pittore che per imprigionare la vita in un ritratto la sottrae giorno dopo giorno alla sua modella e amante. Qui è invece un tentativo postumo: nella ricerca ossessiva della raffigurazione del fanciullo il narratore non vuole realmente imporre al mondo l’immagine del morto, quanto piuttosto l’eterna testimonianza di un sentimento, impresso nella pietra come una promessa.

Federico

Un brano angoscioso e claustrofobico che mi sembra descrivere molto bene un amore degenerato in ossessione. Aggirandosi per questi tetri corridoi, tra le stanze e i marmi freddi, preso dall’insonnia e circondato da statue che dovrebbero rappresentare una persona da lui amata, il protagonista mi dà l’idea di essere in preda a una follia megalomane. La sua ossessione è infatti diventata prepotenza: “ho imposto al mondo la sua immagine”, nonché presunzione: “tuttavia, tutti, più o meno, hanno partecipato al mio sogno”. Un “sogno” che infatti si tramuta in incubo: le statue diventano fantasmi e l’ossessione non è mai soddisfatta dalle numerose repliche. Non basta il volto dell’amato congelato nei tratti di un fanciullo a placare il protagonista. Come la frase di chiusura prova, il suo desiderio è destinato irrimediabilmente a non essere soddisfatto:  insonne nel letto decide di ordinare un’altra statua, nella ricerca folle e senza fine di una riproduzione che rappresenti fin nelle imperfezioni la persona da lui amata.

Tiziana

Qui il tema della bellezza, dell’estetica “quasi” sovrasta il sentimento d’amore; la purezza della contemplazione del bello assoluto ci accompagna in questa sorta di passeggiata fra i simulacri. E si innesta così un altro tema, quello del ricordo. Un ricordo che, come spesso accade, sublima il vero per andare a creare un “mondo parallelo”. Tanto che le creazioni richieste al migliore artista sulla piazza non riescono a rendere giustizia a questa bellezza: ma a quale bellezza? Quella che fu o quella che rimane nel cuore di chi ne perpetua con tenacia la “presenza”?
In questo punto si concentra tutto ciò che mi colpisce: Questi confronti rendevano più arduo il compito della memoria; scostavo come una tenda il candore del marmo pario e del pentelico, risalivo alla meglio da quei contorni immobili alla forma viva, dal freddo marmo alla carne. Proseguivo nella mia ronda; la statua interrogata ripiombava nell’oscurità.
Memoria, forma viva e, infine, oscurità. Quasi una sconfitta: la presa di coscienza della caducità della vita.
E, in ogni riga, poi, vive il dolore. Che suggella (e richiama in pieno) il concetto “classico” dell’amore.

Greta

Leggendo questo testo subito mi ha colpito la prima frase“Non appena egli cominciò a contare nella mia vita, l’arte ha smesso di essere un lusso, è diventata una risorsa, una forma di soccorso”. A cosa “serve” l’arte? Qui il narratore ci dice che per lui, prima, era un lusso: qualcosa di cui, volendo, poteva anche fare a meno, una cosa in più, non essenziale nella sua vita. Poi invece diventa indispensabile, si carica di un significato salvifico, perché diventa “una specie di magia, capace di evocare un volto perduto”.
Il narratore cerca con ostinazione attraverso l’arte ciò che ha perduto, convinto di poter raggiungere il suo scopo, eppure allo stesso tempo consapevole di stare subendo un incantesimo (“avevo stregato le pietre che mi stregavano a loro volta”), di essere vittima della stessa arte a cui chiede salvezza.

Penso che sia molto umana questa sua contraddittorietà, tra il sogno di riportare in vita l’amato nella sua piena carnalità e la dolorosa consapevolezza di non poterlo fare attraverso la pietra.

Marta: Sorella (Marco Lodoli)

Di colpo mi sono ritrovata in una stanzetta vuota, c’erano solo un secchio di plastica verde, due scope, qualche flacone di detersivo in un angolo, e in un altro la sedia dove mi sono seduta, due tubi al neon sulle pareti, una luce saltellante. L’uomo aveva i capelli pettinati all’indietro con la brillantina due larghe stempiature, le guance incavate e un naso grande e curvo. Era alto e sottile come una lancia pronta a conficcarsi. È stato in silenzio almeno per un minuto, respirava lento, poi ha detto non me lo sarei mai aspettato, ho visto tutto, ma questo non me lo sarei mai aspettato. Avrei voluto rispondergli: nemmeno io, mi creda, ma sono rimasta zitta. Mi dia il salmone, per favore. Quale salmone, di cosa sta parlando? e ho fatto male, perché così è peggio. Quello che ha rubato come una zingara, quello che ha nella manica, non facciamo gli attori da quattro soldi, per favore. Avevo la mano rattrappita attorno alla busta, un gancio d’acciaio.
Io sono una suora, ho detto.
Lo vedo, ma mi ridia il salmone, sia gentile. Mi ridia quel salmone che ha rubato e se ne vada senza dire niente, facciamo finta che non sia successo niente. Questo è il mio lavoro, lo so che fa schifo, non me lo renda ancora più difficile. Vorrei fare altro nella vita […], ma io lavoro qui al supermercato e ho tre figli […] Il più piccolo non dorme mai e non mi fa dormire. Mi ridia il salmone e se ne vada, sorella. […]

Ero gelata come l’acqua del torrente, limpida di paura, ma anche lucida a me stessa, presente nell’attimo presente, ero io la pozza dove le cose ricominciano […] mi ha strappato la busta dalla manica, ha detto va bene, non è successo niente, se ne vada e non ne parliamo più. […] mi tocca guardare bene, osservare tutto quanto, e poi ficcare la gente in questa stanza, farla piangere, a volte rovinarla. […]

Va bene, adesso vado, grazie tante.
Qualcuno verrà a spiegare questa vita e tutto il resto? O qualcuno e chiunque sono la stessa persona? […] E il tempo che si stira e si contrae, il tempo da qui a mai più, dieci, vent’anni al massimo, di chi è? È solo mio, è solo il tamburo del mio cuore, o esiste anche prima di me, e dopo, e senza di me? […]
Così ho passato la notte […] Dicevo adesso basta, adesso dormo, ma dentro tutto era desto e non voleva tacere e spegnere la luce.
La mattina in classe ero stanca ed eccitata, Luca non c’era, in testa mi continuavano a battere le domande e l’unica risposta era una spossatezza tremenda, era come un interrogatorio la mia testa, un faro fisso negli occhi e domande, domande a un imputato che non sa cosa rispondere. E così non mi sono accorta dei bambini che si azzuffavano in un angolo, degli spintoni e delle botte, del braccio di Francesco che si spezzava.
Da quel momento, il diluvio. Francesco si teneva il braccio contro il petto e piangeva come un cane, gli altri bambini piangevano ancora più forte, e dieci suore sono apparse nella classe in un baleno, come se stessero già dietro la porta, e tra le loro gonne nuvolose s’è affacciato anche il visetto chiaro di Luca, in grande ritardo, ma puntuale per assistere alla catastrofe. E dopo mezz’ora di pianti e lamenti e mani tra i capelli è arrivata un’ambulanza, due tipi vestiti di bianco e con la barba non fatta, e tante madri con la faccia da funerale e le unghie dipinte. Bambini rivestiti in fretta, strattonati via, imprecazioni e anche minacce, e ancora pianti e giochi calpestati. È stato un teatro, un viavai di gente e parole: e poi di colpo non c’era più nessuno, solo io e Luca in una stanza che galleggiava in mezzo al mondo. Mi è tornata in mente una chitarra che avevo in casa da bambina, la vecchia chitarra spagnola di mio padre, con le corde spezzate e due sassolini che sbatacchiavano dentro la cassa.

Di questo testo mi colpisce il fatto che, da qualunque parte lo si veda, si trova sempre la stessa problematica: ci sono tante strade senza uscita. È come se vi fosse un’intenzione dietro che provasse in tutti i modi ad evocare qualcosa, ma fallisse e crollasse su se stessa: ciò può generare fastidio e un senso di aridità, le quali però rientrerebbero perfettamente nel tenore di questa narrazione, facendo perfetta compagnia alle scene di confusione e disorientamento (banali, quotidiane) che sono qui raccontate.
Questa intenzione fallimentare presente nello stile asciutto e paratattico è pressante proprio perché investe la protagonista della scena, una suora che invece di vedere il mondo “dall’alto”, da una prospettiva “aerea” o dal punto di vista di Dio che dir si voglia, è pressata nolente in un punto di vista irrimediabilmente umano e solo umano – a favore di questo lo testimoniano le situazioni in cui si trova, soffocanti e che implorano via d’uscita: la stanza stretta piena di oggetti “brutti” e inerti, la conversazione ansiosa con l’uomo della sorveglianza, “alto e stretto come una lancia pronta a conficcarsi” da cui deve difendersi, la classe dei bambini da controllare e gestire dove invece s’incomincia una zuffa finita molto male.
Ciò che colpisce di questa particolare protagonista è inoltre il suo modo di gettarsi in questo mondo confuso, fortemente improntato all’azione: un furto insensato, che vorrebbe scuotere quella quotidianità ma che in realtà non può nulla contro di essa, perché ancora più insensata; di fronte a questo non-senso lei non trova altra difesa che dire impotentemente “io sono una suora”.
Le sue domande come i tanti bambini corrono e si buttano l’una sull’altra: vorrebbe e-vocare, vorrebbe un solo pensiero e un solo bambino (che miracolosamente viene fuori alla fine di tutto, “nel languore del circo dopo lo spettacolo”) ma l’unico modo in cui riesce a rispondere è tramite il ricordo materico e polveroso di una vecchia chitarra con le corde spezzate – buffo come questo mi abbia riportato alla mente la metafora musicale presente nell’Inno alla Carità paolino.
L’azione e la mancanza di significazione sono ciò che prepotentemente s’impone in questo brano, in cui c’è anelito ad altro ma apparentemente non si può raggiungere.

Veronica

Grazie per questo testo, dalla prosa estremamente fluida e gradevole. Una prosa allo stesso tempo materica, ancorata alla realtà, fatta di immagini nitide:il secchio di plastica, il neon (definito ‘luce saltellante’, amazing!!), il salmone, ma che continuamente apre anche alla dimensione spirituale, che va oltre la materia, grazie alle domande che la protagonista si pone (Qualcuno verrà a spiegare questa vita e tutto il resto? O qualcuno e chiunque sono la stessa persona? […] E il tempo che si stira e si contrae, il tempo da qui a mai più, dieci, vent’anni al massimo, di chi è?).
Il contrasto spirito/materia è reso in un maniera molto convincente, reale. La protagonista vive un conflitto, è messa di fronte a molte strade senza uscita, come tu hai ben detto, ma non per questo è meno lucida. La sua autoconsapevolezza si avverte nelle frasi in cui parla di se stessa, di come si sente (usando bellissime similitudini):Ero gelata come l’acqua del torrente, limpida di paura, ma anche lucida a me stessa, presente nell’attimo presente, ero io la pozza dove le cose ricominciano e ancora La mattina in classe ero stanca ed eccitata. C’è dunque la lucida consapevolezza di vivere un conflitto ma anche di non poter far altro che starci dentro, attraversarlo, per vedere cosa la aspetta alla fine.
Dicevo adesso basta, adesso dormo, ma dentro tutto era desto e non voleva tacere e spegnere la luce. Bella anche questa immagine della lotta interiore, quando il corpo è ormai stanco, ma l’anima sempre ed inevitabilmente desta.

Tiziana

Un testo che ho avuto la necessità di rileggere, quello che questa volta anima il nostro OpenLab.
Un testo che, a differenza di quello che sente Marta, per me è pieno di “significazione” e privo di azione.
Una religiosa ruba un pesce, il simbolo per eccellenza della cristianità. C’è subito da domandarsi se la vocazione sia sua oppure di “qualcuno o di chiunque”. Una religiosa è chiamata a svolgere il compito di educatrice pur essendo una ladra e non essendo una sua scelta decide di non agire. Di vedere solo ciò che le arriva dritto al cuore. La preferenza di un bimbo rispetto agli altri, la quieta rassegnazione di fronte a quella che lei definisce “catastrofe”.
Nel testo la narrazione supera, secondo me, il linguaggio che è scarno, ma proprio per questo estremamente adatto a dipingere il quadro, la situazione.
Mi piace molto quel discorso indiretto rivolto a se stessa, un dialogo interiore che trascina per un momento sulla scena il lettore.
Ma qualcosa mi lascia lontana: non riesce a portarmi “dentro il testo”. In poche righe c’è tutto, tanto, ma mai davvero agito: un diverbio, un furto, una scuola e una lezione, una zuffa fra bambini, un’ambulanza, un gruppo di madri arrabbiate.
Mi consolano i due sassolini che da tempo sbatacchiano nella cassa della chitarra spagnola del papà.
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