Sospensioni

Chissà quante volte abbiamo sentito ripetere nel corso della nostra vita scolastica questa frase. “Rimandati a settembre”. Il monito che lanciavano all’inizio di ogni anno i professori e che diventava l’incubo da cui fuggire durante i mesi trascorsi tra le mura di quell’edificio amato/odiato da milioni di studenti.

Chissà quante volte le nostre sorti o quelle dei nostri compagni di (dis)avventure sono state legate a questo filo. Quel filo che teneva sospesi i malcapitati nell’incertezza e che scombinava i piani estivi. Sarebbero riusciti a superare l’anno? Avrebbero ritrovato a settembre i compagni di sempre, i professori di sempre, la routine di sempre? Ed ecco che, prospettandosi la possibilità di stravolgere le certezze avute fino a quel momento, aveva inizio uno “studio matto e disperatissimo”: viaggi annullati e libri alla mano, si tenta il tutto per tutto per cercare di mantenere la propria stabilità e il proprio equilibrio.

Spesso la scuola ci parla di “sospensione”, un termine che, nell’accezione datagli, non amiamo poi tanto. La valutazione di un alunno può essere sospesa, come nel caso in cui si venga rimandati a settembre, oppure si può essere sospesi in seguito ad un evento non piacevole, ovvero allontanati dalla comunità e dalla frequenza delle lezioni per un periodo più o meno lungo a seconda della gravità di quanto accaduto. In entrambi i casi, ritroviamo alcuni elementi comuni: una situazione di partenza al di fuori di quanto normalmente accettato che genera un’interruzione delle proprie abitudini, la cui ripresa dipenderà dalle valutazioni effettuate da altri.

Tutte queste componenti sono rintracciabili nella condizione che ognuno di noi si è trovato a vivere e sta vivendo da quasi due mesi. Ecco come la scuola diventa la casa, in tutti i sensi. Da un lato in senso figurato, infatti quella sospensione scolastica è diventata la nostra sospensione quotidiana: l’arrivo del Coronavirus ha causato un blocco improvviso delle nostre vite, ci ha costretti a rimanere nelle nostre case, e il “ritorno alla normalità” dipende dalle valutazioni effettuate dal Governo coadiuvato dalle strutture tecnico-scientifiche; dall’altro lato in senso più letterale, dal momento che milioni di insegnanti stanno “entrando” nelle case dei loro studenti – stanno vedendo salotti, librerie, camerette, peluches, foto – e viceversa, e questo implica l’entrare in una sfera particolarmente intima che non sarebbe stata accessibile altrimenti.

Tutto questo mi porta a pensare che, più che in una situazione di “attesa”, attualmente ci troviamo in una situazione di “sospensione”. Le due dimensioni si intersecano, ma una leggera sfumatura di significato mi fa sembrare la seconda più calzante rispetto a questo momento. Infatti, etimologicamente il termine “attendere”, dal latino “ad tendere”, indica un “mirare, aspirare”, quindi una tensione verso qualcosa di definito che spinge il nostro animo a permanere in tale condizione in vista di un obiettivo. Il termine “sospendere”, invece, significa “tenere appeso”. Si nota come qui venga meno la dimensione del futuro: non tendiamo verso qualcosa, ma siamo tenuti appesi in una dimensione presente apparentemente senza via d’uscita. Apparentemente senza via d’uscita dal momento che un’altra connotazione emerge con forza dai due termini: se nell’attendere è implicato un atto volontario del soggetto che, appunto, tende verso un obiettivo, nel sospendere questo atto volontario manca e diviene un qualcosa di impartito al soggetto, “tenuto appeso” da una fonte esterna. È a questo punto che diventa interessante addentrarsi nella questione e scandagliare più approfonditamente le sfumature che assume tale parola. Il “tenere appeso” rimanda, in prima battuta, ad una situazione di incertezza e instabilità, ma fa riferimento anche al trattenere le cose da una caduta. E chi più di noi sta vivendo in questo momento entrambe queste accezioni?

L’arte sembra aver colto pienamente questa duplice faccia:  la scultura contemporanea, in particolare, non è più ancorata al suolo, ma ha cominciato a giocare con la sospensione di oggetti e strutture, dando vita ad una relazione completamente nuova con lo spazio circostante, in un dialogo in cui si alternano pieni e vuoti, leggerezza e pesantezza.

Basti pensare ai Mobiles di Alexander Calder , sculture sospese in cui il punto di forza e di debolezza coincidono: la sospensione determina incertezza, poiché basta un soffio di vento o il semplice camminare di una persona a provocare un movimento che potrebbe causare anche la caduta della scultura stessa, ma è proprio quella sospensione che, trattenendo l’opera dal cadere, le dona la libertà di muoversi, di acquisire forme sempre nuove. Un po’ come i puntini di sospensione che – facendo un passo indietro – la scuola ci insegna ad usare. La bellezza dei puntini di sospensione è racchiusa tutta lì, nella loro sospensione appunto. Ci lasciano nel dubbio e nell’incertezza, ma aprono un’infinità di mondi possibili. Come abitare quella sospensione dipende solo da noi.

Ed ecco che, ancora una volta, l’arte ci viene in soccorso e lo fa grazie a due grandi artisti: Edward Hopper (impossibile non citarlo in questo contesto) e René Magritte. Guardando i dipinti di Edward Hopper  si resta colpiti dall’atmosfera che li permea e nella quale sono inseriti i personaggi. Si è come pervasi da un senso di sospensione: i protagonisti sono ritratti in situazioni di vita quotidiana e compiono gesti appartenenti alla vita di tutti i giorni. O meglio: li stanno per compiere.  Infatti sembrano essersi tutti bloccati un istante prima. In più la totale assenza di comunicazione tra le persone raffigurate regna sovrana. Magari si trovano anche insieme, sedute allo stesso tavolino o all’interno della stessa stanza, ma non si guardano, non si toccano, non si parlano.

Al contrario L’arte della conversazione del 1963 di Magritte  pone al centro – come si nota già dal titolo del resto – proprio questo elemento. Ci troviamo di fronte a un sentiero che si inoltra in mezzo alle montagne, sovrastate dal cielo che occupa tre quarti della composizione. In questo scenario si trovano sospesi, letteralmente, due uomini che stanno parlando fra di loro. Forse è proprio questo il nodo centrale? Forse è proprio questo che permette di aprire nuovi mondi e di trasformare la sospensione statica di Hopper in una sospensione intesa come elevazione?

Nel film The Terminal, il protagonista (Viktor) rimane bloccato nella sala d’attesa di un aeroporto.  Non può né tornare a casa sua né trovarne una nel Paese in cui si trova. E all’inizio la barriera linguistica avrà un notevole impatto sulla sua permanenza. Non viene compreso, non comprende gli altri e non riesce a trovare qualcuno disposto ad aiutarlo. Quando uno degli addetti alla sicurezza lo accompagna nella sala d’attesa, Viktor chiede cosa può fare in quello spazio. L’addetto risponde: “Qui c’è solo una cosa che si può fare: shopping”. Viktor scoprirà presto che questo non è assolutamente vero, che quel non-luogo nasconde in realtà moltissimo al suo interno. Quel luogo di passaggio diventerà per Viktor una casa, e lo diventerà anche grazie agli incontri che farà. È proprio da quella sospensione iniziale dunque che si apriranno infinite possibilità, anche lì dove sembrava non ce ne fosse nemmeno una. E noi? Stiamo aprendo in questa sospensione infinite possibilità? Ci stiamo soffermando su ciò che la lega all’incertezza o su ciò che manifesta il suo potere salvifico trattenendoci dalla caduta?

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