Responsabilità dello sguardo
Settembre 2019: alcuni Bombers organizzarono un’uscita domenicale. Una passeggiata per scattare foto ad una Roma ancora sonnacchiosa e intorpidita dagli ultimi calori estivi. La passeggiata culminò nella visita ad una mostra, “Una diversa bellezza” al Museo di Roma in Trastevere.
La notizia di per sé è una semplice nota a margine, ma funzionale – per chi come me è un inesperto totale del mondo della fotografia – da un lato per raccontare una delle attività di BC (o almeno la volontà non del tutto espressa di dare una forma più concreta ad un’idea) e dall’altro per soffermarsi su un tema che spesso si è affacciato negli interventi alle nostre Officine e nei contributi su questo blog: l’atto del guardare. Parlare semplicemente di sguardo sarebbe ed è riduttivo. Così come parlare di fotografia, della scrittura della luce come diretta conseguenza di quell’azione.
La mostra dedicata al fotografo Emiliano Mancuso, prematuramente scomparso, è un ottimo punto di partenza per sviluppare una serie di concetti che non troveranno forse organicità, ma probabilmente stimoleranno riflessioni.
La mostra e il libro – pubblicato da Contrasto – traggono il loro titolo da un testo di presentazione e commento scritto da Domenico Starnone, che definisce le foto di realtà quotidiana di Mancuso «immagini in cui tematica, stile, responsabilità dello sguardo cercano un nuovo equilibrio e una diversa bellezza».
Cosa si nasconde dietro una foto che arriva a parlarci? Che significato assume il termine responsabilità dello sguardo? Quanta reale consapevolezza c’è nella creazione di equilibrio e bellezza?
Lo sguardo è singolare non perché sia esclusivamente quello di chi scatta la foto. La foto nasce da più di uno sguardo: quello di chi materialmente vede e sceglie il soggetto; quello del soggetto, anche se si tratta di un essere inanimato o di un paesaggio e, poi, quello di chi guarda, completa e osserva il risultato finale. Inoltre, lo sguardo è singolare perché unico e perché anche particolare, solitario, autonomo.
Non è corretto parlare di responsabilità condivisa, ma è senz’altro fondamentale tenere conto delle diverse componenti di una foto. Come dell’azione che porta alla foto, allo scatto che si sceglie di fissare.
L’ormai indiscriminata abitudine ad immortalare tutto (ma proprio tutto) solleva di parecchio i nostri sguardi da questa “responsabilità”. Rimane, però, come sempre una possibilità: affidarsi all’onestà di ciò che una fotografia può rappresentare e alla sensibilità che la abita.
Quest’estate, a luglio, è venuto a mancare Paul Fusco, un fotografo americano che lavorò a lungo per l’agenzia Magnum e che ci ha lasciato, fra gli altri, un documento straordinario, il servizio fotografico sul funerale di Robert Kennedy, il senatore assassinato nel 1968 e fratello di JFK.
Fusco, che era all’epoca inviato per la rivista di fotogiornalismo Look, salì sul treno che trasportava la bara di Kennedy da New York, luogo del funerale, a Washington DC, luogo della sepoltura. Il viaggio durò una giornata intera e si snodò lungo molti stati USA.
Fusco invertì per così dire il focus del suo obiettivo (fotografico e non) e raccontò una morte (funeral train) attraverso gli immobili e numerosissimi partecipanti: americani che lungo il percorso della ferrovia salutavano il passaggio del treno e rendevano omaggio al defunto.
Sono scatti “di strada”, sono un racconto, una narrazione per immagini. Una storia raccontata da “fuori”.
Nelle foto che ritraggono la vita di una nazione – e questo vale per i progetti seguiti da Mancuso, come per quelli di Fusco – colpisce un particolare che non è ricorrente, ma tangibile: ci sono immagini che immergono il nostro “sguardo” nel silenzio e altre che fanno rumore, chiasso, anche baccano. Sono fermo-immagini di momenti di vita che non ci appartengono, che non ricadono nel nostro usuale orizzonte, ma che ci definiscono.
Lo sguardo che vede e sente; che ha una potenza innata che si sprigiona fino ad arrivare a superare il concetto di bellezza. È questo l’equilibrio di cui parla Starnone? È straordinario che responsabilità e sensibilità possano quasi piegarsi all’inconsapevolezza di un gesto e far trionfare l’inspiegabile. Un fortunato incontro di tempo e vita; una combinazione fatidica; un miracolo, parola che nella sua radice richiama proprio il guardare, l’osservare (miror).
Conta l’esperienza? O conta l’arte? L’adesione alle regole o l’essere al di fuori di schemi prestabiliti?
A ben guardare uno scatto racconta molto di chi lo ha fatto: Letizia Battaglia ha detto delle sue immagini “Non mi piacciono. Le subisco. Come se non le avessi fatte io. Una specie di prigione che dovrò trascinarmi per sempre”.
Ryszard Kapuscinski, il reporter che ha reso forse il maggior merito a quella che possiamo chiamare la letteratura di viaggio, ha dedicato tempo oltre che alla scrittura anche alla documentazione delle sue corrispondenze, soprattutto dall’Africa. Dall’Africa è il suo unico libro fotografico ed è davvero un libro di immagini: scarne didascalie corredano scatti che catapultano l’osservatore nel mondo di cui il suo occhio ha fatto esperienza.
Henri Cartier-Bresson sosteneva che il fotografo deve ambire ad essere un testimone invisibile, che mai interviene per modificare il mondo e gli istanti che della realtà legge e interpreta.
Un muto osservatore, un servitore del reale. Come testimonia la sterminata (e insperata) produzione di Vivian Maier, la fotografa-non fotografa statunitense che ci ha lasciato un “diario fotografico” che racconta un’infinità di storie. Anche in questo caso, per lo più storie di strada. Con emozioni nette, risolte: non una ricerca ma un’occasione per fermare un istante che contiene al suo interno tutti gli elementi che ci fanno fare un passo avanti. Ci fanno vedere.
“Se le tue foto non sono abbastanza buone, allora vuol dire che non sei abbastanza vicino”: questo era il consiglio che Robert Capa dava ai fotografi e che seguiva per primo alla lettera.
Nello sguardo c’è anche vicinanza: una sorta di desiderio di essere quanto più possibile prossimi all’immagine che si vuole catturare.
In questo avvicinamento, in questa “cattura” ritroviamo tutto il senso del “prendere la mira”: torna l’etimologia del verbo mirari dove non solo c’è l’atto del guardare un punto preciso (il puntamento), ma anche l’attenzione che conduce ad un obiettivo, ad un tra-guardo, uno scopo, un… obiettivo appunto.
È innegabile che l’azione che l’occhio compie nel guardare qualcosa ha molto in comune con il concetto dell’imprigionare: non per niente si parla di “catturare un’immagine”. Ma è una caccia che lascia insoddisfatti e privi di possesso: facciamo prigioniera un’immagine e l’immagine, in verità, libera noi.
Una poesia di Emily Dickinson dice assai bene questo concetto: il mistero della distanza, dell’irraggiungibile e la bellezza del mettersi alla prova che ci consente di andare oltre e di ottenere il risultato di “vedere”.
Out of sight? inizia la poesia: una domanda sfidante per l’uomo che non deve rinunciare a toccare l’infinito e per lo sguardo che, uguale in ogni parte del mondo, vede e coglie l’immediato e l’invisibile.
Out of sight? What of that?
See the Bird – reach it!
Curve by Curve – Sweep by Sweep –
Round the Steep Air –
Danger! What is that to Her?
Better ‘tis to fail – there –
Than debate – here –
Blue is Blue – the World through –
Amber – Amber – Dew – Dew –
Seek – Friend – and see –
Heaven is shy of Earth – that’s all –
Bashful Heaven – thy Lovers small –
Hide – too – from thee –Fuori di vista? E con ciò?
Guarda l’Uccello – lo raggiunge!
Curva su Curva – Svolta su Svolta –
Attorno all’Aria Scoscesa –
Il Pericolo! Cos’è per Lui?
È meglio fallire – là –
Che disputare – qui –
L’Azzurro è Azzurro – in tutto il Mondo –
L’Ambra – Ambra – la Rugiada – Rugiada –
Cerca – Amico – e vedrai –
Il Cielo ha timore della Terra – questo è tutto –
Timido Cielo – i tuoi piccoli Amanti –
Si nascondono – anch’essi – a te –
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