La parola delle mani invisibili
Fra il 1543 e il 1544 Jacomo Robusti meglio noto come il Tintoretto realizzò una tela che con tutta probabilità era destinata ad un soffitto: rappresenta la scena mitologica ben descritta da Ovidio nelle sue Metamorfosi (VI, 129-145) della contesa fra Atena e Aracne. Aracne, giovane e abilissima tessitrice della Lidia, sfida la dea Atena, che presiedeva anche alla filatura e alla tessitura, convinta di essere più brava di lei. Per dimostrarlo, intesse un arazzo in cui sono raffigurati gli amori degli dei dell’Olimpo ed in particolare Il ratto di Europa. Ma gli dèi non possono permettere che i mortali siano pari a loro. Così Atena distrugge la tela e tramuta la bella tessitrice in un ragno che pende dal suo filo.
L’opera, oggi conservata alle Gallerie degli Uffizi a Firenze, presenta un’impostazione prospettica che costringe lo spettatore a guardare dal basso il telaio imponente: Aracne, vestita come una cortigiana cinquecentesca, con la camicia aperta e i gioielli, si intravede da sotto in su attraverso i fili tesi sul macchinario. È intenta al suo lavoro con grande attenzione: colpisce il fatto che non si vedono le mani, si intuisce il movimento dello strumento ma non ci è data la possibilità di ravvisare la manualità della tessitura, ovvero la principale caratteristica dell’artigianalità. Di contro, la dea Atena che le diede di fronte, ha in bella vista le mani: una poggiata sullo scranno e l’altra sotto il mento, quasi in un gesto di sfida verso il risultato dell’opera di Aracne. Nello stesso quadro c’è un contrapporsi di azione e immobilità: quelle stesse mani che compiono l’opera non si vedono e non si vedranno più perché cancellate da altre mani più feroci e vendicative.
Un altro quadro del Tintoretto – esposto a Cuneo,nella mostra “I colori della fede a Venezia: Tiziano, Tintoretto, Veronese”, quadro di altro tema e di diverso tenore – ripropone una figura femminile di cui non vediamo le mani: si tratta della Crocifissione, un’opera del 1560 circa, attualmente conservata a Venezia nella chiesa di Santa Maria del Rosario: la scena è un’istantanea del dolore. Un figlio crocifisso e una madre svenuta ai piedi del luogo di tortura. La morte di un figlio sullo sfondo e il primo piano dedicato alla sofferenza di una madre che tiene le mani – invisibili e nascoste dai panneggi abbondanti dell’abito – sul grembo. Non vediamo le mani di Maria ma percepiamo nettamente quel gesto che richiama il dolore del parto rinnovato da una morte prematura sebbene annunciata. In questo dipinto quasi non c’è azione, si percepisce una sorta di fissità rispettosa, piena di grazia. Non c’è lavoro, non c’è movimento. Ma c’è quello che lo storico dell’arte Berenson, per descrivere ciò che emana dalle opere del Tintoretto, definisce “sentimento”. Oltre a questo sentimento di un potere irresistibile e di forze gigantesche […] il Tintoretto ebbe il sentimento che la ragione di esistere d’ogni cosa è per l’umanità e in rapporto all’uomo.
E niente più del corpo fisico è in rapporto all’uomo. Anche dalla scena che raffigura Aracne emana un sentimento: una sorta di sfida, una lotta senza versamento di sangue e che ha un pubblico, collocato in un palco teatrale quasi ad osservare la perizia del lavoro manuale.
In modo non troppo dissimile è raccontato lo stesso mito dal quadro di Diego Velasquez, non datato e generalmente assegnato agli ultimi anni della vita del pittore (1658-60), conservato al Museo del Prado di Madrid.
La scena sembra ambientata in una fabbrica di tappeti, tanto che nel ‘700 gli fu assegnato il titolo Las hilanderas (Le filatrici). In primo piano, una stanza in penombra dove pare volteggiare del pulviscolo di lana: cinque figure femminili sono intente al lavoro manuale. Ovunque segni tangibili del mestiere della tessitura: fusi, fiocchi, matasse. A sinistra, una donna anziana spinge con la mano la ruota di un filatoio che gira velocissimo; a destra, una giovane, con una camicia bianca dipana una matassa sui bracci di un arcolaio. Al centro una filatrice si china costringendo il nostro sguardo ad entrare ancor più dentro l’immagine, fino al secondo piano, dove altre tre donne, che non appartengono al mondo artigiano delle filatrici, si affacciano sul proscenio di un teatro. Una delle tre invita lo spettatore a guardare ancora oltre: scopriamo così un terzo piano dove è ritratta una figura con l’elmo, lo scudo e la lancia (la dea Atena) in atto di intimidire una giovane, come se si trattasse di una recita teatrale. Sulla parete di fondo è appeso un arazzo che ha la funzione di chiudere al tempo stesso la scena del teatro e il quadro. Si intravede il soggetto dell’arazzo: un toro, che trascina un corpo di donna. La scena tessuta sull’arazzo riproduce a sua volta un quadro (che apparteneva alla collezione di re Filippo): Il ratto di Europa, di Tiziano.
Il gioco dell’”abisso” (quel virtuosismo che apre di volta in volta su paesaggi concatenati) ci racconta il quadro: l’arazzo è quello che le sapienti mani della donna in primo piano stanno tessendo e Velasquez vuol qui rappresentare il mito di Aracne che è sì un monito all’orgoglio degli uomini, ma anche un modo per reclamare il valore del lavoro umano e artigiano. In un certo qual modo qui Aracne è l’alter ego dell’artista. Il ratto d’Europa è il soggetto raffigurato, secondo la favola, da Aracne sull’arazzo della sfida e Velasquez ripropone in ben due circostanze, in primissimo piano e ancora sullo sfondo, le protagoniste. L’anziana e la giovane, Atena e Aracne, mostrano le loro capacità e la loro bravura nella filatura, ovvero nella preparazione della materia prima per la tessitura: le loro mani compiono gesti antichi, precisi e propri del rigore della loro arte.
Altrettanto puntuale ed efficace è il gesto di Maria nell’Annunciazione di Tiziano (1563-1565, chiesa di San Salvador) che apre l’esposizione cuneese e racconta, attraverso i suoi colori incendiari, l’inatteso momento di paura che piomba improvviso sulla giovane. Con la mano destra la ragazza solleva il lembo di un sottile velo che tiene sul capo: come a proteggere il viso, a schermare gli occhi da una visione che la intimorisce. La finezza del tessuto e la paura che le si legge in viso richiamano la maestria di Aracne e il terrore seguito all’ira della dea Atena contro di lei ed il suo operato.
Le mani sono, in questi esempi scelti, uno strumento: visibili o meno, sono funzionali, funzionanti alla creazione del racconto, al compimento del fatto, alla generazione di un manufatto così come alla nascita di un sentimento.
Le mani hanno voce, hanno tono, hanno parola. Perchè le mani creano. Sono al tempo stesso il mezzo con cui un artista si esprime e l’artista stesso. Davvero una parte per il tutto.
Questo contributo nasce dall’incrociarsi fortuito di eventi. Da un lato, la recente visita nella mia città, Cuneo, di una piccola ma eccezionale mostra organizzata e promossa da Fondazione CRC e da Intesa Sanpaolo, “I colori della fede a Venezia: Tiziano, Tintoretto, Veronese”. Dall’altro, gli incontri per preparare l’Officina di BC del 21 gennaio 2023.
La Crocifissione di Tintoretto e l’Annunciazione di Tiziano, presenti in mostra, mi hanno offerto un ottimo spunto.