Corpo senza anima
La parola corpo – soma (σῶμα) è stata spesso associata dagli antichi Greci alla parola sema (σῆμα) – tomba, in contrapposizione alla parola anima – psyché (ψυχή), vita. Dunque, corpo-tomba in contrapposizione ad anima-vita.
Omero, ad esempio, tutte le volte in cui nell’Iliade usa la parola corpo (σῶμα) si riferisce a corpi senza vita, a cadaveri.
Così Platone, che riprende le concezioni orfico-pitagoriche del dualismo corpo-anima:
“Dicono alcuni che il corpo (σῶμα, soma) è séma (σῆμα, segno, tomba) dell’anima, quasi che ella vi sia sepolta durante la vita presente (…). Però mi sembra assai piú probabile che questo nome lo abbiano posto i seguaci di Orfeo; come a dire che l’anima paghi la pena delle colpe che deve pagare, e perciò abbia intorno a sé, affinché si salvi, questa cintura corporea a immagine di una prigione; e cosí il corpo, come il nome stesso significa, è séma (custodia) dell’anima finché essa non abbia pagato compiutamente ciò che deve pagare.” (Platone, Cratilo)
L’arte e la letteratura sono da sempre ricche di riferimenti a corpi che, cessate le loro funzioni vitali, mostrano un essere diverso da quello che conoscevamo.
Pensiamo al passo del romanzo Furore di John Steinbeck, in cui un contadino racconta di quando, nella campagna contro gli indiani, rimpiange di aver ucciso un innocente:
“Stava lì immobile, braccia spalancate, nessuno aveva il coraggio di sparargli, finalmente io miro alla pancia e…ohibò il gigante s’abbatte in avanti (…). Non avete mai visto un fagiano reale, superbo della sua bellezza e bum! sparate e andate a raccoglierlo e lo trovate tutto guasto e sanguinolento; e sentite il rimorso di aver distrutto un essere vivente che era meglio di voi?”
Qui c’è il riferimento ad un corpo di animale nel pieno della sua bellezza, un fagiano reale che, ucciso, viene ridotto ad un essere guasto. Cosa resta della sua regalità?
Così, potente è l’immagine di un corpo senza vita che ci consegna Mario Luzi nei versi dedicati al ritrovamento del cadavere di Aldo Moro.
Acciambellato in quella sconcia stiva
Acciambellato in quella sconcia stiva,
crivellato da quei colpi,
è lui, il capo di cinque governi,
punto fisso o stratega di almeno dieci altri,
la mente fina, il maestro
sottile
di metodica pazienza, esempio
vero di essa
anche spiritualmente: lui –
come negarlo? – quell’abbiosciato
sacco di già oscura carne
fuori da ogni possibile rispondenza
col suo passato
e con i suoi disegni, fuori atrocemente –
o ben dentro l’occhio
di una qualche silenziosa lungimiranza – quale?
non lascia tempo di avvistarla
la superinseguita gibigianna.Mario Luzi (da Per il battesimo dei nostri frammenti,1985)
Qui il corpo senza vita si presenta come un abbiosciato sacco sanguinolento, contrapposto al valore morale, spirituale, intellettuale di un uomo dalla mente fina, un maestro sottile di metodica pazienza.
Inevitabile, a questo punto, il richiamo alla performance dell’attore e regista Marco Baliani, intitolata Corpo di Stato. Nello stesso giorno, il 9 maggio 1978, viene ritrovato a Roma il cadavere di Aldo Moro e viene ammazzato dalla mafia il giornalista Giuseppe Impastato, imbottito di tritolo sui binari della ferrovia di Cinisi (Palermo). Corpi scomodi per il potere, dunque “cose da schiacciare”.
I corpi-cadavere trovano spazio nel teatro contemporaneo, come manifesto dell’anti-bellezza in contrapposizione agli stereotipi del corpo perfetto.
Pensiamo a May-b (1981), la performance della coreografa francese Maguy Marin ispirata al mondo tragicomico di Samuel Beckett, che ha per protagonisti corpi in stracci bianchi, invecchiati e ricurvi, nel loro disfacimento fisico ed interiore. Si muovono come larve, con passi strascicati e impacciati, al suono di marce militari, richiamati all’ordine dai suoni di un fischietto.
Corpi cadaverici sono anche i protagonisti de La Classe Morta (1975) del regista polacco Tadeusz Kantor. Gli attori sono vecchi dai vestiti polverosi che si muovono come sonnambuli in una litania funebre. Ciascuno di loro porta con sé un piccolo manichino, un “cadaverino” che rappresenta il corpo del bimbo che era stato tra quei banchi e che la memoria non riesce a far rivivere pienamente. Spiega Kantor: “Sono sempre stato affascinato dalle opere d’arte generate da relitti. Un relitto è ciò che rimane dopo la distruzione, qualcosa che è assolutamente divenuta inutile e che ha un passato tragico. Solo i ricordi possono ricrearne la funzione. Ne La Classe Morta, i banchi della scuola, sono dei relitti, inutili, morti, incapaci di realizzare il loro folle desiderio di tornare indietro nel tempo”.