[Report] Officina di novembre 2024
Nell’ambito della ricerca dell’invisibile, l’Officina di novembre è dedicata al tema del silenzio, che è stato indagato nelle sue molteplici accezioni e sfumature. Il silenzio può essere, infatti, inteso, di volta in volta e a seconda del contesto, come sinonimo di vuoto o di raccoglimento, come frutto di altrui imposizione o di personale ricerca, come sintomo di imbarazzo o di complicità, come momento temuto o anelato. Quel che appare comune alle differenti ipotesi è la percezione che raramente si possa parlare di “silenzio assoluto”, ossia, da un lato, che il mondo non è quasi mai completamente in silenzio, e, dall’altro, che il silenzio quasi sempre si configura quale autentico mezzo di comunicazione.
Tiziana
L’intervento ha preso le mosse dall’editoriale per soffermarsi sulle possibili diverse accezioni di silenzio, compreso il concetto di “silenzio assoluto”, che, di fatto, sembrerebbe non esistere. A tale proposito è stato visionato un breve video “home-made” girato sulle montagne piemontesi, in prossimità di una cima vicina ai 3.000 msl, prima senza sonoro e poi con il sonoro. L’immobilità del paesaggio – che farebbe pensare al silenzio più profondo – ha restituito invece un ambiente con presenza di rumore fortissimo. Non opera delle silenti montagne ma del vento che si infrange sulle loro pareti.
Si è fatta anche una riflessione sul binomio silenzio di preghiera, riflessione e ascesa verso l’alto.
Sono state poi lette due poesie che hanno contribuito alla discussione: Ho bisogno di silenzio, di Alda Merini e Silenzio, di Giuseppe Ungaretti.
Ho bisogno di silenzio
Ho bisogno di silenzio
come te che leggi col pensiero
non ad alta voce
il suono della mia stessa voce
adesso sarebbe rumore
non parole ma solo rumore fastidioso
che mi distrae dal pensare.
Ho bisogno di silenzio
esco e per strada le solite persone
che conoscono la mia parlantina
disorientate dal mio rapido buongiorno
chissà, forse pensano che ho fretta.
Invece ho solo bisogno di silenzio
tanto ho parlato, troppo
è arrivato il tempo di tacere
di raccogliere i pensieri
allegri, tristi, dolci, amari,
ce ne sono tanti dentro ognuno di noi.
Gli amici veri, pochi, uno?
sanno ascoltare anche il silenzio,
sanno aspettare, capire.
Chi di parole da me ne ha avute tante
e non ne vuole più,
ha bisogno, come me, di silenzio.
Silenzio
Conosco una città
che ogni giorno s’empie di sole
e tutto è rapito in quel momento
Me ne sono andato una sera
Nel cuore durava il limio
delle cicale
Dal bastimento
verniciato di bianco
ho visto
la mia città sparire
lasciando
un poco
un abbraccio di lumi nell’aria torbida
sospesi.
Nella prima lirica il silenzio è una necessità, una condizione personale per transitare ad una fase di riflessione, di ricerca interiore. Nella seconda poesia, invece, il silenzio compare solo nel titolo, eppure pervade i versi, si tocca e si percepisce nella descrizione di un momento di doloroso distacco dalle proprie origini.
Infine, si è commentata una delle foto vincitrici dell’ultima edizione del World Press Photo 2024 dal titolo “The return of the ancient voices”. Un’immagine in bianco e nero di una indigena mapuche seduta in un interno e immersa nei suoi pensieri. Una lama di luce la colpisce lateralmente portando in evidenza la mestizia silenziosa di un popolo provato dalle invasioni e depredato del suo territorio fin dall’arrivo degli spagnoli in Sud America nel XVI secolo.
Luca
Il silenzio nel cinema si può esplicare nella direzione dei grandi attori/autori di performance nel cinema muto. Charlot in questo senso, con la propria fisicità rappresenta anche quei suoni che il mezzo tecnico non può far udire allo spettatore. Su un diverso piano, anche il mimo si muove in un mondo privo di sonorità. E, tuttavia, mentre per Charlot l’attore interagisce con un mondo esistente, per il mimo la realtà intorno a lui prende forma attraverso la propria arte.
Rivela, in proposito, Marcel Marceau:
«Per guardare uno spettacolo di mimo bisogna essere pronti a livello mentale nello stesso tempo partecipare, come se si entrasse in una chiesa. A volte ho avuto l’impressione di affrontare un pubblico attento: volevo sentire il ritmo del suo cuore, i sussulti di silenzio, e quando il pubblico era distratto, talvolta, per catturare la sua attenzione, rendevo i gesti più ampi e lenti. Avevo notato che, per il trionfo del gesto geometrico, era necessaria una grande precisione, ma, per commuovere, il gesto doveva essere circondato da un alone poetico, doveva respirare per evitare linearità e piattezza.
Era indispensabile la naturalezza di un pesce nell’acqua e non volevo che il pubblico mi sentisse respirare perché pensavo che il mimo andasse guardato come dietro una vetrina. Doveva decantare, essere lontano dalla realtà; il respiro era carne, materia. Il gesto doveva essere trasposto e dare al corpo l’apparenza alata di un essere librato in uno spazio pieno di silenzi, paragonabile ai più bei suoni della musica.
L’intensità dello strumento musicale è dovuta alla forza del suono, all’armonia: ecco cosa mi colpiva quando il vecchio musicista lacerava con il suo clarinetto la gravità della notte.
Il gesto non deve barcollare: deve essere trattenuto e non smorzarsi, come la voce; il gesto vago e incerto stanca l’occhio, il gesto preciso e poetico conquista con la sua grazia…».
Valerio
L’intervento proposto principia da una data: 11 novembre 1918. In quel giorno, infatti, con l’Armistizio di Compiègne, si mettono a tacere le armi e al clamore della prima guerra mondiale segue il silenzio della pace. Ed è sempre col silenzio che si decide di celebrare, un anno dopo, la raggiunta pace: nasce così la cerimonia laica del “minuto di silenzio”. Dalle parole del giornalista australiano Edward George Honey:
Cinque minuti soltanto. Cinque minuti di silenzio per la nazione. Una intercessione sacra. Comunione con i Morti Gloriosi che conquistarono per noi la pace, e dalla comunione, nuova forza, speranza e fede nel domani. Anche funzioni religiose, se volete, però la cerimonia non si svolga nelle chiese ma nelle strade, nelle case, nei teatri; ovunque la vita pulsi, la vita venga sospesa.
Il silenzio è qui proposto come momento di raccoglimento, “sospensione della vita” per celebrare la vita stessa. Differente accezione del minuto di silenzio è quella che traspare dal film Bande à part di Jean-Luc Godard.
Qui il minuto di silenzio è proposto per noia, per mancanza di alternative. Non avendo nulla da dirsi/dirci, i protagonisti scelgono di esperire il silenzio. E con loro si azzittisce l’intero mondo. Il regista sceglie di spegnere ogni suono e in scena rimangono solo i pochi movimenti muti degli attori, in attesa di poter tornare a parlare (ma di cosa?).
Un altro silenzio è quello del mondo di Chieko, personaggio del film Babel di Alejandro González Iñárritu. Chieko è una ragazza sordomuta che cerca la propria strada nella sovraffollata Tokyo. Il regista pone lo spettatore nei suoi panni giocando con il sonoro.
In questa sequenza, in un primo momento i rumori della città scompaiono per lasciare il posto a una colonna sonora ambient con la funzione narrativa di riassumere in poche immagini un intero pomeriggio di spensieratezza. In un secondo momento, il regista alterna la musica della discoteca al silenzio assoluto percepito dalla protagonista, con effetto spaesante. Successivamente, quello stesso silenzio diventa sinonimo di un vuoto interiore, quando Chieko vede la propria amica baciare il ragazzo verso cui pure nutriva interesse. Il ritorno a casa è, infine, solo lontano e cupo rumore di sottofondo.
Greta
Il silenzio è pieno o vuoto? Essendo una mancanza di suoni dovrebbe forse essere inteso come privo di qualsiasi cosa. Tuttavia il silenzio sembra oscillare tra la sua dimensione negativa e quella positiva, in cui invece lo si può intendere come pieno di significati e peculiarità.
Nel brano The Sound of Silence di Simon&Garfunkel il silenzio è vuoto, perché rappresenta l’indifferenza diffusa tra le persone, che hanno perso la capacità di relazionarsi veramente le une con le altre:
People talking without speaking,
People hearing without listening,
People writing songs that voices
Never share
And no one dared
Disturb the sound of silence
Se questa canzone è una denuncia contro un silenzio che va spezzato, il brano Silence is sexy degli Einstürzende Neubauten gioca con il silenzio, attribuendogli una serie di caratteristiche, prima fra tutte quelle di essere sexy. Il gioco avviene a più livelli, non solo nel testo, ma soprattutto nella performance: il cantante (Blixa Bargeld) accende una sigaretta e la fuma per tutto il testo. Questo suono è in perfetta armonia con i silenzi che Blixa dirige coinvolgendo anche il pubblico, che dal canto suo vorrebbe applaudire e schiamazzare, ma che invece entra nel senso della canzone e partecipa al silenzio.
Quando coinvolgiamo qualcuno nel nostro silenzio però rischiamo di scontrarci con concezioni diverse dalle nostre. È quanto succede a Joel in Eternal Sunshine of the Spotless Mind quando la fidanzata Clementine gli chiede di parlarle di sé. Per lui «parlare in continuazione non significa comunicare», ma per lei un silenzio del genere è carico di un significato negativo: la mancanza di fiducia.
In Pulp Fiction troviamo un altro tipo di silenzio, anche qui tra due persone. Vincent e Mia si ritrovano a un bar, ma non sanno che dirsi. Sono due persone estranee, costrette a passare la serata insieme. Il silenzio che c’è tra loro è inevitabile, e li imbarazza. Mia però ha una visione diversa del silenzio, anzi di un tipo molto particolare di silenzio: quello tra due persone in perfetta armonia, che si capiscono profondamente e accettano i rispettivi silenzi.
Cecilia
A partire dalla citazione di Simonide di Ceo proposta nell’editoriale del mese, secondo la quale “La pittura è poesia muta, la poesia pittura parlante“, si è provato a riflettere sulla natura sonora della poesia. Nell’antichità, in un periodo in cui pare che la lettura a mente non fosse così diffusa, la poesia era prima di tutto musica. Nell’Eneide, poema epico fra i più famosi dell’umanità, ricordato spesso per la sua dimensione narrativa e le storie mitiche che racconta, Virgilio dichiara da subito di voler cantare le “armi e gli eroi“.
“La pioggia nel pineto” di Gabriele D’Annunzio inizia con un autoritario invito a tacere e ascoltare il rumore di questo fenomeno naturale che i versi si propongono implicitamente di riprodurre. Una volta letto, magari ad alta voce, questo componimento, diventa difficile non sentirlo nella mente ogni volta che si guarda la pioggia cadere fuori dalla finestra, come se il poeta abruzzese fosse riuscito a dare un “audio” a un’immagine di per se tacita.
Ma possono esistere poesie silenziose? Poesie in cui il senso della vista prevale su quello dell’udito?
Risale all’epoca ellenistica l’invenzione del calligramma, la poesia concepita per essere guardata, in cui i versi sono disposti in modo da formare immagini evocative del senso delle parole o del titolo. I tentativi più famosi, oltre a quelli del Barocco, sono le sperimentazioni portate avanti a cavallo tra il XIX e il XX secolo nell’ambito di movimenti letterari innovatori. Eppure, anche se in questo caso la valenza visiva dell’illustrazione finisce per prevalere sull’importanza delle parole e del loro suono, qui non si può ancora parlare di poesia silenziosa.
Nel 2020 un gruppo di ricercatori dell’Università di Macerata ha “tradotto” l’Infinito nella “lingua” delle emoji. In questa versione quelle che nella poesia di Giacomo Leopardi sono parole, corrispondenti nelle nostre menti a dei suoni, diventano concetti-immagini, fruibili anche da chi l’italiano non lo conosce — purché però non si ignori questa lingua digitale. In questo caso la sonorità della poesia risulta del tutto soppressa. Nella nostra società l’immagine finisce per essere considerata più vicino, appunto, al concetto, all’idea, tanto che pensiamo quasi ci possa parlare della sostanza delle cose al di là della loro forma.
Eppure bisogna ricordarsi che l’immagine non è meno “forma” del suono, e che in quanto tale introduce uno scarto rispetto al significato. Nel secolo scorso i poeti creazionisti come Vicente Huidobro credevano in una poesia che potesse presentare fatti nuovi, impensabili nella realtà, una poesia che fosse in grado di creare un mondo alternativo. Questo per Huidobro significava anche che la poesia fosse traducibile senza problemi, dato che il concetto alla base della parola è lo stesso, a suo avviso, in tutte le lingue del mondo. Uno dei suoi poemi più famosi, Altazor, o il viaggio in paracadute, inizia con l’introduzione di una serie di elementi assurdi nel mondo reale, come la madre che ricama “deserte lacrime sui primi arcobaleni” o “le ortensie e gli aeroplani di calore“. Si tratta di immagini, visioni familiari e colorate che ora compongono qualcosa di nuovo: leggendole nella nostra lingua si potrebbe pensare che siano davvero traducibili in quanto accostamenti innovativi di significati che già possediamo. Se proseguiamo nella lettura del poema, però, troviamo espressioni più problematiche come “una flor que llaman girasol/ y un sol que se llama giraflor” che sono, sì, traducibili in italiano (“un fiore che chiamano girasole/ e un sole che si chiama girafiore“) ma che devono risultare incomprensibili in altre lingue del mondo proprio perchè giocano sul senso dato da elementi morfologici e fonetici. Non a caso in Altazor l’intento di creazione del mondo attraverso il libero utilizzo del concetto sottostante alla parola poetica si conclude con la scomparsa del significato stesso: il Canto VII è composto perlopiù da una serie di sillabe, articolazioni vocali, canti d’uccelli.