Essere due. Essere in due.

Per Polluce! Quando lo guardo e vedo il mio aspetto, tale e quale, perché io sono uno che si specchia spesso, be’, non c’è nulla di più simile a me. Cappello e vestito, uguali. Gamba e piede, altezza, gli occhi e la tosata, labbra, naso, mascella, mento, barba, collo, tutto! Cosa posso dire? Se ci ha pure le cicatrici sulla schiena, non c’è nulla di più simile. Ma che cosa sto a pensare? Io sono quello che sono sempre stato, non c’è dubbio. 

Nell’Anfitrione di Plauto, Sosia, il servo spaccone, ottuso e un po’ vigliacco si sta avvicinando alla casa del suo padrone con il compito di portare ad Alcmena, la padrona, la notizia della vittoria in battaglia del marito. Pavido e pauroso, al momento della lotta Sosia si è nascosto ed ora deve trovare le parole giuste per raccontare un’epica pugna alla quale non ha assistito. Arrivato alla porta, gli sbarra il passo il dio Mercurio che sta vegliando sull’inganno di Giove che, sotto le mentite spoglie del marito Anfitrione, amoreggia con Alcmena. Mercurio ha appena assunto le sembianze di Sosia e lo apostrofa in questo modo: Tu dunque osi dire di essere Sosia, mentre Sosia sono io? Il povero Sosia – dal suo nome deriva il significato per antonomasia di una persona talmente simile ad un’altra da essere scambiata per quella – sbalordito e testardo, pur sotto una gragnuola di pugni divini, tenta di rivendicare la propria identità, la propria individualità: non ha dubbi, è quello che è sempre stato.

Lo sventurato Sosia, alla fine della tenzone dialettica con Mercurio, dice:

Preferisco andarmene. O dei immortali io invoco il vostro aiuto, dov’è che ho perduto me stesso? Dov’è che ho mutato persona? Dov’è che ho smarrito il mio aspetto? O forse ho lasciato me stesso al porto di Tebe, se mi è capitato di dimenticarmi di me? Costui certamente ha tutto l’aspetto che finora era mio. Mi capita da vivo l’onore di un ritratto, che nessuno mi farà quando sarò morto! Adesso vado al porto e gli racconto tutto, al mio padrone. Sempre che non dica anche lui che non mi riconosce. Magari! Magari Giove mi facesse la grazia! Me la toglierei, zic, zac, questa zazzera da schiavo, e metterei il berretto da uomo libero.

Sosia si arrende ad un’evidenza che non riesce a dimostrare; si chiede dove ha lasciato se stesso, dove ha mutato la sua persona, smarrito il suo aspetto. Imputa la responsabilità ad un luogo, alla magia di un posto che ha esercitato su di lui una trasformazione. Non vede più sé, si vede “fuori” da sé. In questo sdoppiamento, che non viene mai definito, Sosia lascia il passo e riconosce la verità di esistere ad un altro Sosia. E attraverso l’agnizione, Plauto/Sosia rivendica il riconoscimento dell’unicità, con tutte le sue specifiche caratteristiche, non ultima la speranza di assaporare la libertà, rappresentata dal copricapo e non più dal taglio deciso dei capelli.

Rimanendo ancora nelle commedie di Plauto, il tema del doppio viene ripreso ne i Menaechmi, una storia che ha per protagonisti due gemelli, che, separati da piccoli, si ritrovano da adulti, dopo mille peripezie ed ambiguità.

Il tema, senz’altro, piace, tanto da ispirare molti autori: un giovane Shakespeare, ad esempio, scriverà la Commedia degli errori dove i gemelli sono quattro (due coppie) e dove gli equivoci legati agli scambi di identità hanno la meglio sulla trama classica della commedia.

Cosa significa trovarsi di fronte a un altro se stesso? Come si passa da essere unici, particolari, individuali ad essere due, entità doppia, duplicata? Stregoneria, magia nera, pazzia, metempsicosi, crisi di identità, perdita del senno?

Gli esempi citati appartengono a contesti letterari comici, parodistici dove è il lieto fine a ricomporre i pezzi sparsi. Anche in presenza di fantasmi divini o follie umane.

Per tornare al nostro Sosia, è proprio lui a confessare di avere l’abitudine di guardarsi allo specchio: non è affatto un caso questa ricerca continua di sé. Come non lo è nella vicenda di Narciso.

Narciso, figlio di Liriope e del fiume Cefiso, era un bambino di una bellezza e di una grazia inaudite. La madre, desiderosa di conoscere cosa il futuro riservasse al proprio figlio, si recò dal vate Tiresia che profetizzò per il bimbo una lunga vita se non avesse mai conosciuto se stesso. E invece, come ben sappiamo, Narciso conobbe se stesso, anzi conobbe solo se stesso. Sprezzante verso il sentimento della ninfa Eco fu punito della dea Nemesi che fece in modo che il giovane, mentre si chinava per bere da uno specchio d’acqua, rimanesse ammaliato dalla beltà del suo stesso viso. Ovidio nel terzo libro delle Metamorfosi (versi 425-440) scrive:

Caravaggio, Narciso, Galleria Barberini

Desidera, ignorandolo, se stesso, amante e oggetto amato, mentre brama, si brama, e insieme accende ed arde. Quante volte lancia inutili baci alla finzione della fonte! Quante volte immerge in acqua le braccia per gettarle intorno al collo che vede e che in acqua non si afferra! Ignora ciò che vede, ma quel che vede l’infiamma e proprio l’illusione che l’inganna eccita i suoi occhi. Ingenuo, perché t’illudi d’afferrare un’immagine che fugge? Ciò che brami non esiste; ciò che ami, se ti volti, lo perdi! Quella che scorgi non è che il fantasma di una figura riflessa: nulla ha di suo; con te venne e con te rimane; con te se ne andrebbe, se ad andartene tu riuscissi. Ma né il bisogno di cibo o il bisogno di riposo riescono a staccarlo di lì: disteso sull’erba velata d’ombra, fissa con sguardo insaziabile quella forma che l’inganna e si strugge, vittima dei suoi occhi.

Il mito di Narciso introduce anche un altro elemento, oltre allo specchio: l’illusione, la finzione, l’inganno, sempre sottesi alla malia fatale del doppio e dell’altro da sé. Narcisio rifiuta il confronto con Eco, con qualcuno fuori da lui per rimanere prigioniero del vano confronto con se stesso (vittima dei suoi occhi).

Lo specchio non viene attraversato, o meglio oltrepassato, come accade ad Alice. Lo specchio è il mero strumento che consente la visione (reale o ingannevole) di un corpo: si tratta anche in questo caso di un “viaggio” ma all’interno di sè invece che verso il mondo esterno.

Luzzatti, disegno per Il visconte dimezzato

Non c’è specchio ma un gioco di sorprendente finzione, invece, nel romanzo di Calvino, Il visconte dimezzato.

Medardo, visconte di Terralba, in una feroce battaglia che si svolge in Boemia contro l’esercito dei Turchi invasori viene violentemente colpito da una palla di cannone che lo divide esattamente a metà. L’esito dell’incidente pare lasciare in vita solo la parte sinistra del visconte, la parte malvagia che, una volta ritornata in patria, instaura un regime di terrore nelle terre di cui è signore. La metà destra, intanto, è anch’essa sopravvissuta e conduce un’esistenza da eremita nei boschi limitrofi a Terralba, adoperandosi per ripianare le ingiustizie che la parte malvagia infligge alla popolazione. Le due parti, entrambe innamorate della stessa donna, si contendono il suo sentimento fino ad azzuffarsi furiosamente e a colpirsi a vicenda proprio in coincidenza della lunga ferita che le ha originariamente separate. Con una complessa operazione chirurgica il visconte viene ricomposto nella sua interezza.

Anche se Calvino ha esplicitamente affermato di non aver avuto alcun intento di scrivere un racconto sull’opposizione fra bene e male non possiamo non pensare al romanzo racconto di Robert Louis Stevenson, Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde (L’isola del tesoro). Come anche ad alcuni racconti di Edgar Allan Poe sul tema del doppio: Ligeia, William Wilson o ancora Un racconto dalle Ragged Mountains, nei quali il concetto “duale” viene affrontato con espedienti diversi (la metempsicosi nel primo caso, il doppelgänger nel secondo e il sogno nel terzo).

È lo stesso Calvino, verso la fine del lungo racconto, a dare uno spunto che, al tempo stesso sembra risolvere la questione e riproporla in prospettiva più ampia:

Forse ci s’aspettava che, tornato intero il visconte, s’aprisse un’epoca di felicità meravigliosa; ma è chiaro che non basta un visconte completo perché diventi completo tutto il mondo.

Delle due l’una: meglio un visconte intero o dimezzato? E il mondo, è davvero completo se due unità si uniscono?

Forse una risposta parziale si ritrova nell’ultimo editoriale apparso in ordine di tempo su queste pagine. L’autrice cita Badiou e dice (semplifico…) che l’esperienza amorosa permette un’esperienza unica sul mondo sulla base della differenza e non soltanto dell’identità.

Uno, due; diversità, identità. È proprio quel “non soltanto” a lasciare ancora una volta il problema aperto.

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