Qual è il mio destino?
Qual è il mio destino?
La parola destino evoca spesso qualcosa che ha a che fare con la necessità, una necessità dura, cupa, cogente, inevitabile. Di fronte al destino non resterebbe altro che la rassegnazione: “è il mio destino!”. Ci si può ribellare di fronte a una destino “segnato”, ma questa ribellione sembra avere il gusto dell’inutilità e dunque dell’insuccesso. Alla fine non si può che dire: “era destino!”.
Destino però è anche la parola che gli spagnoli usano per indicare la destinazione, il punto di arrivo di un cammino. La vita è un cammino, lo si dice spesso. La metafora del viaggio è ben nota e sta ad indicare il percorso dell’esistenza nelle sue tappe, nei suoi percorsi, nelle sue mete. Avere una destinazione oggi appare, sempre più un altro modo per dire avere obiettivi. Si dice che bisogna andare avanti per obiettivi, per goal. Per vivere bene occorre fissarsi delle mete da raggiungere. Raggiunte quelle, bisogna fissarne altre e poi altre e poi altre e poi altre… Fissare una meta è, in fondo, una meta, un obiettivo da raggiungere! Alcune persone non riescono a farlo.
Tuttavia, mi chiedo: basta così? La domanda “qual è il mio destino?” resta intatta. Né il primo né il secondo atteggiamento sono sufficienti a dare una risposta.
Il primo atteggiamento porterebbe a rispondere: qualunque sia il tuo destino, è destino! Non ci puoi fare nulla! Puoi fare qualcosa fino a che esso non arriva. Ma quando arriva non c’è nulla da fare (nel bene e nel male)! Dunque: “beato te!” oppure “peccato! E’ andata così…”.
Il secondo atteggiamento porterebbe a rispondere: il tuo destino è qui e ora: la vita è nelle tue mani: spendila! Dopo chi lo sa che cosa sarà! Finchè puoi, fa che sia ciò che tu vuoi che sia!
Il punto è che la domanda resta ancora là: qual è il mio destino?
Chi è in grado di dare questa risposta? Come averla? Se tesa al massimo questa domanda finisce per coincidere con la domanda sul senso della vita. Se ci fate caso, “senso” e “destin(azione)” fanno entrambe riferimento a coordinate spaziali e di movimento. Il senso ultimo della vita è, in realtà il senso primo. Il destino è l’origine. La destinazione non viene semplicemente “dopo” il cammino: essa è ciò che costituisce il senso, la direzione, la tensione del cammino. Lo struttura, lo muove, lo indirizza.
Ma questo destino, questo senso ci è radicalmente indisponibile. La nostra vita appare ai nostri stessi occhi come criptata. Nessuno può dire di conoscere se stesso e la propria esistenza nitidamente e fino in fondo come davanti a uno specchio. Il destino mi sfugge nella sua globalità, ma lo vivo e lo “costruisco” giorno per giorno. Ma il senso della vita in quanto tale, nella sua globalità, è indisponibile.
Un credente lo considera, in definitiva, criptato in Dio (anzi: è Dio stesso, in realtà), così spende la sua libertà vivendo di questa consapevolezza. Chi non crede può fissare un obiettivo di vita, una direzione, ma il senso ultimo resta comunque non “de-finibile” in toto, semplicemente perché nessuno ha presente la linea della propria esistenza dall’inizio alla fine.
Per il credente il destino è la vita in Dio, per il non credente la conclusione dell’esperienza terrena, cioè la morte, la fine della propria coscienza, lo sfaldamento della propria vita organica, e la sopravvivenza nel ricordo delle persone care o dei propri atti o opere.
Inteso in questo senso, il destino non si pre-vede! Prima si può semmai coglierne l’orientamento. Ma il destino è sempre “altro”, è qualcosa che sta dentro e sotto ogni istante della vita, ma resta radicalmente altro. Sta sempre al di là. Insomma: non si può dire qual è il mio destino. Si può dire che sta al di là, però.
Questa visione è frutto di una convinzione e di una scelta. L’artista come il fruitore (lettore, spettatore,…) forgia (a volte senza accorgersene) il suo modo di fare arte o di fruirne alla luce di questa visione: destino di vita o destino di morte. E’ questione di vita o di morte. In ogni caso c’è di mezzo un “abbandonarsi”, un salto.
Di un personaggio il suo autore e il suo lettore possono chiedersi: qual è il suo destino? Di una storia chiusa nelle pagine di un romanzo ci si deve chiedere: qual è il suo destino? Esattamente come ci si può chiedere qual è il destino di ogni persona e della grande vicenda della Storia, cioè la storia del mondo.
Ma anche qui si compie un salto, in realtà: il destino di un personaggio e di una storia narrata non si compie nelle pagine, ma nel suo lettore. La loro storia, in qualche modo, entra a far parte del mio destino. Per un lettore, ma anche per un autore: il destino di un personaggio si compie anche nella vita personale del suo autore, in un modo o nell’altro.
La domanda sul destino, allora, torna indietro. Si espone nuovamente sulla vita di ogni giorno. Anzi: si gioca giorno per giorno, ogni giorno, nel rapporto concreto con le cose: “la vita umana, come le nostra intuizione e i nostri grandi scrittori ci hanno detto, è semplice e limitata. E’ un processo in cui a un semplice istante ne segue un altro, in cui muoviamo un passo dopo l’altro, in cui tiriamo un respiro dopo l’altro” (parole di William Lynch). Il destino non è mai evasione da questo limite: è semmai invece una grande visione.
Lo spazio delle cose è il luogo in cui si gioca il senso e il destino. Ogni gesto, ogni oggetto è pieno zeppo di destino, a ben guardare. La realtà si può vedere sempre in trasparenza…
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