Di Terra e di Noi

Si nasce con un dialetto in bocca.

E’ il dialetto della propria origine, coi suoni e le inflessioni della voce giusti, tipici, determinanti, simili al profilo della propria terra, coi motivi cantati di una regione. Il dialetto sta in bocca come un buon sapore, come l’acqua delle fontane o come una musica conosciuta; si possono dimenticare le lingue imparate, ma il dialetto resta nel fondo della gola coi suoi speciali suoni, i gorghi, gli arresti e i canti.

Il nostro è uno dei più ostili all’orecchio del forestiero, suona sgradito quasi come una favella straniera […] non assomiglia infatti a nessuno dei linguaggi delle regioni vicine, ma assomiglia al “volto della gente”. Non so se le lingue vengono considerate come espressioni dirette della razza. Il mio dialetto è come un personaggio: disceso dalle strade delle nostre valli porta con sè una gran quantità di paragoni, di immagini, suoni, similitudini che sembrano essere come i nostri boschi, gli impetuosi torrenti, le case solitarie, le preghiere cantate dell’uomo, i cori delle chiese, il grido dei selvatici; e s’annuncia coi suoni più strani […] non ha grazia all’orecchio di chi ascolta, ma dà sensazioni di forza; senza avere le costruzioni sintattiche involute proprie delle lingue nobili ha una cruda immediatezza, un preciso potere di definizione.

E dà gusto a parlarlo e anche ad ascoltarsi mentre lo si parla; perchè trascorsi anni di vita […] ognuno se lo ritrova in bocca come un mazzetto di erbe nostrane e lo ributta fuori con assoluta fedeltà, come un ruminante.

Sono queste alcune riflessioni tratte da un testo di Vittorio Polli dai Quaderni Brembani 2002, a cura del Centro storico culturale della Valle Brembana.

Questo per dire che quando scriviamo non affidiamo soltanto ad una penna e ad un foglio i nostri pensieri, i nostri sentimenti, gioie, dolori e stati d’animo, ma li affidiamo anche ad una lingua, quella che meglio di ogni altra sa come raccontare di noi, quella con la quale sapremmo orientarci ovunque, quella lingua che odora di terra, sa di calore, di un abbraccio, di casa. E Vittorio Polli si riferisce proprio alla sua di lingua, alla lingua dei posti in cui è cresciuto, quelli di cui ha respirato l’essenza più intima, più incantata ed eterna e che giorno dopo giorno lo hanno visto diventare un uomo.

Il dialetto fa parte di noi, del nostro essere, del nostro “stare” al mondo e del farlo nel modo che più ci è proprio, probabilmente in quello che più di ogni altro ci caratterizza e distingue, il sovente modo di esprimerci facendo ricorso ad antichi sapori, agli odori, alla storia nostra ed ancor prima dei nostri genitori, dei nostri nonni, dei genitori dei nostri nonni. Pensieri che sanno di origine, di conforto e sollievo, di pietre e terra, umida bagnata dal sole, di bergamotto e ginestra, di mare e frutta secca, di olive, di stalla, di scavi che si lasciano scoprire per rivedere la luce di antichi splendori, di sere d’estate, di fulmini e fuochi. Pensieri selvaggi di vita domestica, di pastori, vite nei campi, pensieri genuini, ingenui e mai sazi di semplicità e freschezza, di scirocco e brezza.

Pensieri di vita, pensieri di noi.

Mi fa piacere allora riportare alcuni versi di Mimmo Martino, poeta dialettale reggino, purtroppo venuto a mancare, che all’amore e ad una ribollente passione, ad occhi di donna ubriachi di cuore e sole affida malinconico il nostalgico ricordo di una giovinezza oramai sfiorita.

Dalla raccolta “E’ solamente un soffio”:

Carmelina

Torna l’estati e, comu tanti sciuri,
sbocciunu l’umbrelluni nta marina;
i bbotta, a spiaggia brilla di culuri:
pari nu veru quatru stamatina!

U mari è calmu, passa nu vapuri…
Spaparanzatu o’suli, supr’a rrina,
ntuntutu, a bucca sciutta p’u caluri,
penzu a ddhi jorna belli, Carmelina,

quandu, cu’nu bagghiolu r’acqua ‘i mari,
vinivi all’intrasatta e mi lavavi
e, ridendu, mi ti fa pirdunari,
cadivi ‘nginocchiuni e mi’mbrazzavi.

Mi veni a menti, comu fuss’aieri,
ddhu pomeriggiu i lugliu, nda cuntrura,
satandu p’i vineddhi e p’i sinteri,
mbriachi di suli, i terra e d’aria pura,

an certu puntu mi pigghiasti ‘a manu:
‘na bampa i focu mi sintia nde vini…
cantavanu i cicali a ‘mmenz’o ranu:
pariva nu cuncertu i mandulini!

E ndi passaru anni…Carmelina!
Na ‘stati dopu l’atra rotulìa…
Mentri ti penzu un dubbiu mi macina:
si fusti vera, oppuru fantasia.

Bbulau ddha ‘stati e ti purtau luntanu:
ieu, senza i tia, mi sintia muriri,
sperai mi torni e mi mi stringi a manu
sutt’a ddhu cerzu di mureddha niri.

Passasti com’on lampu, Carmelina,
e ti purtasti la me’ giovintù…
s’ammanta di culuri la marina:
‘a stati torna, ma tu…non ci si’ cchiù.

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  1. Ludovico ha detto:

    Una delle liriche più belle di mio padre.
    Un grazie a Voi per averla posta all’attenzione di tutti.
    Buona Pasqua,
    Ludovico Martino

  2. loredana ha detto:

    Stavo navigando senza uno scopo preciso…non mi aspettavo di imbattermi in una poesia… Non ho capito tutto (non sono calabrese), solo il senso generale… Mi sembra molto vera, piena di nostalgia, rispecchia anche un po’ il mio stato d’animo. Ho letto il commento di Ludovico: sei fortunato ad avere un padre poeta… penso sia molto più facile parlare con la poesia.
    Buona notte, sognerò il mare

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