Le frontiere dei colori
Guardare il mondo significa vedere persone e vedere cose.
Persone e cose sono sempre colorate. Dunque vedere il mondo significa vedere colori. Ma questi oggetti non sfumano l’uno sull’altro, l’uno nell’altro. Il grigio della caffettiera non sfuma nel rosa della mia mano. Il grigio è grigio e il rosa è rosa, anche se la mia mano rosa, per prendere quella cosa grigia, deve adeguarsi alla sua forma. Persino due corpi nudi che si avvicinano restano di un rosa o di un nero o di un altro colore diverso. E, se non basta il colore, la differenza è data anche dall’ombra dell’uno sull’altro che produce contrasto.Le forme si adeguano, i colori no. I colori squillano e proclamano al mondo la loro individualità, la loro intangibilità. Se plasmo l’argilla rossa con le mie mani rosa, essa si modella secondo il volere delle mie mani ma non stinge, non si schiarisce. Il colore proclama una resistenza e costruisce una frontiera, un limite.
Sorvolare gli Stati Uniti coast to coast non è meno emozionante che attraversarli in pullman. Quando arrivi verso le Montagne Rocciose il verde lascia il posto al rosso e poi, quando superi il centro della California, il rosso lascia il posto al verde e poi al blu del mare. Dall’alto le sfumature non sono cosi evidenti.
Fare esperienza del contrasto significa fare esperienza del limite, del confine. Fare esperienza del limite è gioire delle differenze, essere colpiti da epifanie. Senza contrasto c’è la morbidezza della sfumatura che accoglie, ma anche il conformismo dell’abitudine. Quand’è che non vediamo più i colori in quanto tali? Quando essi diventano ambiente da vivere, tutto armonico, home, milieu. Allora è la sinfonia, la vita, che plasma e amalgama i suoi elementi.
Allora si può dormire e riposare perche non c’è niente che “spari” negli occhi. E questo è essenziale per una vita umana. Come quando due persone sposate da anni ormai sono talmente fuse/sfumate che il loro stesso stare insieme diventa home. Senza sfumature non c’è dialogo, amore, rapporto stabile. Solo avventura destinata a scoppiare in se stessa o a restare fugace, sempre disumanamente in fuga.
Ma guai se la sfumatura cede per sempre il passo all’omogeneo, all’indistinto. Guai se i rapporti umani restano puramente fusionali, se non si percepisce la differenza dell’altra persona nel desiderio di una fusione con lei. Si perderebbe così perfino la possibilità di quello che Mary Oliver ha definito lo splash of happiness. E…
come potrebbe esserci un giorno nella tua intera vita
che non abbia il suo schizzo di felicita?
how could there be a day in your whole life
that doesn’t have it’s splash of happiness?
E lo schizzo è sempre una macchia. Di colore.
La “macchia” è ciò che meglio mi fa capire la forte “individualità” del colore.
Se il colore non fosse così resistente a mescolarsi, non avvertirei la macchia, quell’urto estetico gridato dall’accostamento di due colori, uno in “netta maggioranza” sull’altro.
Strana la macchia. Più è piccola, più si vede, più infastidisce. E’ asimmetria, casualità, imprevibilità; natura. E’ il sugo di un’ottima pastasciutta che inevitabilmente mi cade sulla camicia malgrado i tovaglioli.
La macchia. La relegavo in un angolo oscurato da negativtà e sudiciume. Ed ora scopro, proprio qui seduto alla mia scrivania, che è tutto macchia. Il mio giubbotto di pelle scura, sull’attacapanni nero, sulla finta parete beige bianca e plexiglas. Gli schizzi rossi e blu sulla lavagna bianca. E quel cancellino azzurro!
La macchia spezza la monotonia, la monocromia. E’ davvero uno sprizzo di felicità, in un panorama altrimenti neutro.
Ciao!
Gabriele