Poeta = cuoco?
(il presente testo è la Prefazione alla raccolta di poesie “Per le strade del mondo” di Annalucia Lorizio, di recente pubblicato da Aletti Editore).
Per chi sa vedere non c’è molta differenza, dice Annalucia Lorizio, tra il tavolo di un cuoco e tutto il creato. Quella del “cuoco filosofo” è una delle liriche più vivide di questa raccolta ed è fin troppo evidente che l’autrice sta raccontando “in diretta” una sua personale esperienza (al punto che verrebbe la voglia di chiederle di assaggiare il coniglio cucinato con così grande perizia):
Mentre nella cucina ingombra/ mondo le carni sozze d’un coniglio, /pulisco gli ortaggi, mesto le salse, /trito, impasto, affetto,/ colo impurità, getto via gli scarti, / faccio ordine nel caos primordiale / e immetto una ragione /nella materia inerte.
Questo lavoro è demiurgico, è il lavoro di Dio:
Non altrimenti, io credo, /s’accinse al suo lavoro / il grande Iddio /sistemando la massa originale, /ciò che sembrava vile poltiglia / era l’inizio, ancora oscuro, / d’una ricetta eterna e universale.
Il cuoco è come Dio, “fa ordine nel caos” e “immette ragione nella materia”; è anche il poeta fa la stessa cosa, perchè il poeta è colui che sa vedere oltre il caos, oltre il caso, e oltre la materia inerte, sa che oltre al vile poltiglia esiste una ricetta, sa, è sapiente, intelligente e sa attendere; così si conclude la lirica:
Quel che rovina la cucina /( ed il creato )/ è l’ingordigia di chi,/troppo impaziente,/ s’avventa alle vivande/ e le consuma indifferente: / solo l’intelligenza dell’attesa, /rende gustoso il senso/ della vita e del palato.
La poesia è un fatto di palato, di sensi, di azione, di passione: mondare, pulire, mestare, tritare, impastare, affettare, colare, gettare via, fare ordine.. è quasi un incantesimo stare a guardare l’ardimento di questo cuoco del Logos. Questa prima raccolta di poesie (prima, ma già molto matura) di Annalucia Lorizia si muove su questi due poli: l’ordine e l’ardore. Nella “Canzone dell’inventore” dichiara:
Io ardevo di toccare/quei bulloni, /d’accarezzar le cinghie / e le ganasce,/ di udire le pulegge / in movimento,/ il respiro ritmato dei pistoni/ nell’ombra operosa / della sera.
Viene in mente il teologo Teilhard de Chardin che trovava la bellezza e la gloria divina nei bulloni di ferro e “nelle cose”, quel “velo” sotto il quale Dio ci tiene e noi teniamo Lui. La poesia ha a che fare con il velo, lo svelarsi e il ri-velarsi; se c’è un velo si può vedere al di là, senza restare accecati.
Nella stessa canzone (bello e allegro questo termine che qualifica tutte le liriche della raccolta) la Lorizio si e ci chiede: “È una gran bizzarria/ vedere un po’ più in là?”. Sotto il velo delle cose (che possono essere cinghie, ganasce, pulegge, ma anche argani, fiaschi, lampade a olio, e poi strade, finestre, sassi, ossa, stelle, mari..il paesaggio di queste canzoni è mediterraneo, solare, fecondo, femminile) avvengono gli incontri e avviene l’incontro. Quel paesaggio fa subito pensare a Montale, ma qui c’è appunto fecondità, sguardo più femminile e immaginifico, per cui si possono cantare anche le “Chiare terre del Nord/ abitate dagli elfi” e la strada stessa canta “Ritornelli di pietre e sassi […] pulviscolo dorato/ del primo meriggio,/ un giorno qualunque / e la sua gloria”. Una gloria che si riceve però a caro prezzo e l’ombra dello smacco è sempre presente per cui:
Se anche alzassi un dito/ per chiedere l’elemosina/ d’andare un po’ più in là, / resterei sempre al di qua/ del mio viaggio. / Per altri sentieri vado cercando il passo: […]/ il cercatore, che abbandona/ la pista fra alberi alti, / invoca la Madre, /calcinando pensieri/ come ossa. / Non mi appartiene una vita / senza punti cardinali.
Al viandante smarrito, che cerca il passo, non resta altro che una vita che non può fare a meno dei punti cardinali (di nuovo l’ordine, viene in mente un altro grande poeta italiano, Claudio Damiani) e soprattutto una Madre da invocare. La strada è perdita, caos e caso, è smarrimento e smacco, ma è anche possibilità di preghiera e incontro.
La presente raccolta parla di tutto questo e lo fa in modo dicotomico, non a caso è suddivisa in due parti (Gli incontri e L’incontro) che hanno come teatro “le strade del mondo”. Se nella prima parte si vive con più drammaticità il rischio dello smarrimento e il senso della mancanza, nella seconda (una sorta di intenso commento poetico alle pagine del Vangelo) si celebra la possibilità reale, tagliente, dell’incontro con Qualcuno che può veramente “rendere gustoso il senso” (se la vita la si vive nell’intelligenza e nella custodia dell’attesa). Certo il rischio c’è sempre, la Lorizio lo dice chiaramente in apertura della seconda parte: “Ma se il cuore non accetta/ d’essere abbracciato/ nessuna verità/ è plausibile/ e nessuna realtà/ è credibile” (come dice C.S.Lewis “A chi non vuol ricevere nemmeno l’Onnipotenza può donare”) ma resta il fatto che solo un incontro (con l’altro e l’Altro) può riscattare, salvare l’esistenza umana altrimenti sorda, muta, inaridita. E l’incontro non è mai prevedibile, misurabile. Il peggio che possa capitare è quello di diventare come “Il geometra misuratore”:
Misuro le strade,/ le case, le cose/ di questa borgata:/ ciò che va oltre/ la mia portata/ non mi riguarda,/ né mi interessa,/ sia pure il mondo/ o la vita stessa!
Chi misura soltanto non ha inter-esse, non vuole “stare dentro” le cose, resta freddo e distante come il Pitagora contro cui canta il Papa-poeta Karol Wojtyla nella Ballata dalle arcate di Wawel in cui contrappone l’immagine di santo Stefano martire che sopra di sé contempla i cieli aperti e quella del filosofo senza fede, del pensiero calcolante, che per comprendere inquadra e squadra:
Non misurerai, non misurerai Pitagora, non chiuderai nella cifra, nel chilometro. / Non avvicinare di notte alla volta celeste i compassi, le scale.
La notte non è roba per compassi ma è anch’esso “velo” che mostra “la gloriosa bellezza che dolcemente ferisce”, ed è da questa ferita che scaturisce la poesia, quella di ogni poeta e anche di Annalucia Lorizio, una poesia che matura paradossalmente alla luce dell’“ombra operosa della sera”.
Canzone del cuoco filosofo
La fame è una brutta bestia,
te la leggo sul viso!
Sei capitato a puntino:
gli avanzi d’un banchetto
sono cibo prelibato
per il povero pellegrino.
Assaporare è un’arte,
niente di banale!
Credi che si gusti
con la bocca, non è vero?
Ma io t’assicuro che il cibo
è frutto del pensiero…
Sorridi per quell’impulso
che t’attanaglia
il ventre brutale,
ma per me
il cibo è un ideale.
Mentre nella cucina ingombra
mondo le carni sozze d’un coniglio,
pulisco gli ortaggi, mesto le salse,
trito, impasto, affetto,
colo impurità, getto via gli scarti,
faccio ordine nel caos primordiale
e immetto una ragione
nella materia inerte.
Non altrimenti, io credo,
s’accinse al suo lavoro
il grande Iddio
sistemando la massa originale,
ciò che sembrava vile poltiglia
era l’inizio, ancora oscuro,
d’una ricetta eterna e universale.
Quel che rovina la cucina
( ed il creato )
è l’ingordigia di chi,
troppo impaziente,
s’avventa alle vivande
e le consuma indifferente:
solo l’intelligenza dell’attesa,
rende gustoso il senso
della vita e del palato.
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