Vincenzo Consolo: le parole, il tono, la cadenza
Domenico Calcaterra ed il suo brillante esordio editoriale.
Vincenzo Consolo, un poeta prestato alla narrativa. Una delle voci più singolari, autentiche, indignate della letteratura italiana del secondo Novecento. Ultimo erede d’una grande tradizione d’intellettuali impegnati.
Verga, Gadda, Pasolini, Sciascia a far da maestri e da sfondo.
E la Sicilia. Ancora una volta, torna ad ammaliarci con la sua storia letteraria. Storia di una terra traboccante di passione, quella per la vita ed il suo più intimo sentire, e di ciò che da sempre distingue ogni buon siciliano, ossia il coraggio e la dignità di saperne sempre affrontare ogni momento a testa alta. Si aggiunga a tutto questo il prestigio di una scrittura il cui più grande pregio è quello di non consentire ripensamenti, una scrittura che non considera la possibilità di un “volgersi indietro” ed è quella di Vincenzo Consolo con la sua nobile e solitaria maestria.
Domenico Calcaterra fa ricorso ad una accattivante esuberanza espressiva nel delineare in questo suo primo acuminato e puntuale saggio la voce di un singolare autore, spesso, ancora oggi, ai margini degli interessi e del gusto contemporanei. Il giovane saggista di Sant’Agata di Militello ha mosso i primi passi nella misteriosa ed al tempo stesso poetica vicenda consoliana intessendo le trame di una lodevole tesi di laurea sulla trilogia romanzesca di Vincenzo Consolo, per poi tendere al perfezionamento di questo lavoro continuando con l’artificiosa interpretazione dell’universo letterario ed umano di questo autore, del suo sperimentalismo e del conseguente magistero di scrittura. Sin dalle prime e dense pagine Calcaterra chiama in causa doti come la lucidità, la fermezza, il puntiglioso impegno, quelle che non possono, che non devono mancare quando ci si appresta ad indagare tra i meandri di certa letteratura, specie in quello di alcuni autori come Vincenzo Consolo, per cui fare letteratura non significa soltanto rifarsi a schemi preesistenti.
E le sue sono pagine, sottolinea Calcaterra, da scrutare con meticolosa cura, in quanto pagine che costringono ad una costante “rilettura” e alla cavillosa interpretazione di simboli, allusioni e malinconiche metafore (tra le più significative quella della “chiocciola”), tutte volute regressioni per una piena restituzione di verità e dignità, per il raggiungimento del luogo della molteplicità delle cose possibili. Una meta, questa, anche stilisticamente raggiunta, col ricorso per esempio all’autoironia come mezzo per identificare tutte le sue possibilità di scrittura.
Calcaterra ci guida così nell’universo impervio e talvolta distaccato, deluso, di Vincenzo Consolo, sottolineando tuttavia l’abilità dello scrittore nel padroneggiare il proprio tempo con la maturità e la saggezza accumulate negli anni e lo sguardo attento di chi ha imparato a coglierne, anche a proprie spese, incanti e deformità. Dalla presa di coscienza dell’angustiante difficoltà di tradurre il proprio sentire in forma letteraria a partire dal 1968, quando dietro invito di Sciascia Consolo si trasferisce a Milano per intraprendere l’attività giornalistica, al momento-rivelazione di tutto il saggio, la comprensione dell’importanza dei ricordi, dell’importanza cioè che Consolo affida alla “metrica della memoria” e al “memorare”, all’ “archeologico scavo” nel proprio passato per affrancarsi, per penetrare nitidamente il presente ed oltrepassare l’ostacolo, altrimenti insormontabile, della narrazione in assenza di esperienze reali, profonde, concrete: questa è secondo Vincenzo Consolo la principale minaccia dei nostri tempi. Ed è per questo che lo scrittore non si accontenta di una situazione solo perché oggettivamente data, da cui la chiave per capire come misteriosamente egli sia in grado di trapassare nell’universo poetico, sfiorando il canto.
Dalle lucide annotazioni sugli esordi letterari dello scrittore, da una materia autobiografica, istintiva, fatta dei racconti della propria infanzia e legati a ricordi della terra d’origine, in un periodo a cavallo tra la fine del secondo conflitto mondiale e il tramonto della civiltà contadina, alla composizione del romanzo che per la prima volta rivela Consolo all’attenzione della critica e del pubblico, Il sorriso di un ignoto marinaio, seguito dagli altri suoi due grandi e appassionati lavori: Nottetempo, casa per casa (1992) e Lo spasimo di Palermo (1998), solenne completamento di una inattesa rivelazione. La realtà siciliana vi emerge da un quadro culturale di profonda urgenza e degrado, sullo sfondo di un’Italia risorgimentale ancora in fasce e l’aspetto ricercato di “graffiante contestazione e risentita protesta”, in un’esplorazione che si traduce liricamente in una sorta di “sforzo morale” di recupero di ogni segno di civiltà, anche quella più corrotta, che ha condotto Consolo fino alle realtà scomode delle più recenti guerre di mafia.
Muovendosi da un capo all’altro della trilogia consoliana, quasi fosse un unico filo narrativo, Calcaterra evidenzia nel suo saggio come con movenze di leopardiana memoria e la critica al potere (inteso come ogni forma di impostura annidata nella storia e la mancanza di assunzione di responsabilità), pur considerando talvolta piccoli frammenti del passato, di accadimenti sociali o di drammatici fenomeni naturali, la straordinaria avventura autobiografica di Vincenzo Consolo si sia misurata con la tradizione letteraria più illustre, saccheggiando da essa e sperimentando nel contempo uno stile nuovo. Uno stile la cui principale caratteristica è la lotta contro ogni forma di espressione e mistificazione della realtà per non essere costretto a ripiegare su se stesso, nonché alibi che consente di assumere sembianze poetiche e di approdare ad un esemplare lavoro di sintesi e trasformazione della civiltà letteraria dell’isola in metafora di tutta la realtà (siciliana ma ancora di più italiana). L’instancabile bisogno di “Libirtaa” si redime, così, da anni di duro silenzio.
Dunque Calcaterra sottolinea come dal rigore filologico e creativo sia stata possibile la creazione della lingua di Vincenzo Consolo, contro-codice linguistico sui generis che si svincola dalla forma romanzesca, dalla finzione letteraria e si rigenera per orientarsi misteriosamente in quella poetica, divenendo romanzo-tragedia: quasi un classico del passato e del presente, attraverso la riappropriazione di luoghi ed affetti (“siamo tutti degli ulissidi, degli erranti, espropriati del proprio luogo della memoria”). Il bisogno di non perdere per nessun motivo la bussola della proprio identità, da cui la memoria come stimolo primo alla sua attività e una letteratura rivissuta come memoria universale, e di sfogare in modo sommesso la propria voce ha portato Consolo a continue riscritture ed al continuo passaggio da un registro convulso ad uno più disteso, quasi referenziale, attraverso le voci di personaggi di diversa provenienza ed estrazione sociale.
Come già prima di lui era avvenuto per altri grandi della nostra più illustre tradizione letteraria, Calcaterra fa dunque notare come lingua di Consolo si rifugi nel dialetto, nelle citazioni, nel gergo sperduto di rispolverati arcaismi, di forme, vocaboli e suoni incontaminati, lasciandosi contagiare dal passato per rivisitare la storia attraverso la massima ricercatezza formale: una lingua barocca in segno di rottura e protesta, ma che cerca insistentemente di aprirsi al mondo e alle cose; il riscatto attraverso la memoria che avviene non soltanto sul piano della storia, ma anche e soprattutto su quello della lingua, facendo sì che l’oggetto-simbolo si disgreghi.
La necessità del racconto nasce in Consolo da ciò che lo scrittore si porta dentro della sua terra e della sua storia personale, sin dal primo incontro col famoso Ritratto d’Ignoto di Antonello da Messina, da cui il suo capolavoro prende il nome, e da cui parte per la comprensione del ruolo dell’intellettuale nella società, del rapporto tra letteratura e storia e tra lingua e scrittura, ulteriore riprova di quanto già sperimentato attraverso la pratica del giornalismo. Il materiale storico e quello narrativo si incastrano perfettamente colmando a vicenda i vuoti l’uno dell’altro: un ripercorrere i propri passi, insomma, e quelli di un intero popolo per superare ogni incertezza e raggiungere un alto livello di lingua e di contenuti, ma svincolandosi dai canoni tradizionali del romanzo storico, quello manzoniano, per sfociare in acque totalmente nuove. È probabile che proprio per questo, per l’eccedente preoccupazione ideologica che le opere di Consolo per moltissimo tempo non siano state considerate tra i più grandi capolavori della letteratura italiana dei nostri tempi.
A impreziosire un’analisi già di per sé ricca di spunti e felici intuizioni critiche, si aggiunge l’ampia intervista finale allo scrittore che da sola vale l’intero libro.
Domenico Calcaterra, Vincenzo Consolo: le parole, il tono, la cadenza, Prova d’Autore, pp. 240, euro 13.
Altri lavori di Domenico Calcaterra sono apparsi su riviste come Paleokastro e Sincronie. Attualmente l’autore è impegnato in uno studio sui rapporti tra Antonio Veneziano e Miguel de Cervantes, durante la coatta frequentazione nella colonia penale di Algeri.
Ringrazio Katia per la splendida recensione al mio saggio e spero che il mio “onesto” lavoro dedicato alla trilogia romanzesca dello scrittore siciliano Vincenzo Consolo possa aiutare a suscitare quella indispensabile curiosità necessaria ad accostarsi ad una delle voci più autentiche nel romanzo letterario italiano della seconda metà del Novecento. Per intenderci: avete presente Camilleri, rimuovete il suo cincischio biascicato di dialetto parlato per gioco snob dalla borghesia ricca e dall’aristocrazia siciliana otto-novecentesca, ed immergetevi nei veri giacimenti della lingua di cui è ricca la Sicilia (la mia, la nostra Isola), e ai quali Consolo carnalmente attinge con pervica scavo di memoria.
Domenico C.
La letteratura non è il mio forte, ma intuisco che sei già un grande.