Critici con il mal di critica
In occasione dell’uscita del nuovo pamphlet di Massimo Onofri, Recensire. Istruzioni per l’uso, Cristina Taglietti sul Corriere della Sera di oggi ripropone la questione di come si debba fare critica letteraria e di quali siano le responsabilità del critico. La giornalista del quotidiano milanese riferisce che i mali della critica attuale secondo Onofri consistono nel “rifiuto del giudizio di valore” e, quindi, nella rinuncia alla “funzione etica della critica stessa”.
Non è la prima volta e non sarà l’ultima che si lancia questo sasso nello stagno ma non si andrà oltre le solite polemiche (già iniziate con la sarcastica risposta di Antonio D’Orrico sulla stessa pagina del giornale): ogni critico difenderà il proprio approccio e attaccherà quello dell’altro (anche perché Onofri ha stilato un elenco di buoni e cattivi critici). Assisteremo ad una scaramuccia, istantanea quanto sterile, tra intellettuali che hanno cessato di cercare un orizzonte comune. Come certe fulminee risse tra ubriachi che subito si spengono, ognuno ritornerà a chiudersi nel proprio pensiero e silenzio corrucciato (fino al prossimo sbotto). A detrimento dei lettori e del dibattito culturale.
La questione, dunque, è un’altra: perché non si tenta più di trovare una sensibilità comune, una verità sull’esperienza dello scrivere e del leggere che possa costituire la base comune di partenza per un’avventura comune di ri-scoperta della letteratura? Come superare l’incomunicabilità dovuta al rifiuto di credere che, oltre alla sensibilità personale e alla libertà di esprimerla, in ogni opera letteraria esiste una alcunché di oggettivo che si offre (o non si offre) al lettore come possibilità (o impossibilità) di vedere il mondo con uno sguardo nuovo e più penetrante?
L’assenza di una “funzione etica della critica” (questione troppo astratta e, quindi, tanto autosufficiente da non richiedere un confronto forte sul senso dell’esperienza del leggere) ha pertanto radici profonde perché riguarda la prevalenza del soggetto sulla realtà e il relativismo per il quale l’opinione di ciascuno ha più legittimità della realtà stessa. Il risultato è che non ci si intende più nemmeno sulla materia di cui parliamo ovvero la letteratura. Che cos’è la letteratura? A cosa mi serve? Che cosa accade quando si legge un’opera letteraria? Ancora una volta sembra opportuno tornare a queste domande fondamentali (non in astratto ma ogni volta alla luce della lettura del libro che si vuole recensire) senza rispondere alle quali è impossibile alcun dibattito costruttivo tra critici e uscire dal rigido «soggettivismo» che ammorba la critica italiana.
Mi pare che possa essere di qualche utilità rivedere la questione della critica in una prospettiva storicistica. La critica letteraria, come la intendiamo noi, è un’attività intellettuale decisamente moderna, che si viene delineando in età illuministica quando si esaurisce la questione dell’aderenza o meno dei testi ai modelli letterari desunti (più o meno arbitrariamente) da Aristotele e si attribuisce alla produzione letteraria una funzione nella società. Il primo che si dedica a quest’attività è Ugo Foscolo, ma la nascita vera e propria della critica si ha con Francesco De Sanctis, che elabora una ben precisa metodologia di analisi derivante dalla filosofia idealista di Hegel, linea sulla quale si muoverà con ulteriori personali apporti Benedetto Croce. Successivamente, da un lato i critici lavorano lungo la linea del positivismo che viene sempre più specializzandosi in ricerche storiche e in analisi di tipo linguistico e filologico, con un notevole successivo apporto da parte dello strutturalismo, d’altro lato i grandi sistemi filosofici che vengono elaborati e trovano largo seguito, creano le loro estetiche e di conseguenza le loro metodologie di giudizio critico: è il caso soprattutto del marxismo e della fenomenologia di Husserl, ma anche,in specie in Francia, dell’esistenzialismo. Esauritasi la funzione dei grandi sistemi filosofici ed anche ideologici (marxismo), si è indebolita fino a disorientarsi l’attività della critica, che di per sè ha bisogno di un retroterra ben solido di valori sull’uomo e la sua vita, a cui la letteratura deve, con creatività e fantasia, rispondere. Questa dinamica storica si potrebbe rilevare molto bene da un’analisi dei manuali di letteratura italiana che più sono stati usati nelle scuole medie superiori italiane negli ultimi cinquant’anni, dove di volta in volta sono stati in auge quelli crociani, quelli marxisti, quelli strutturalisti, più marginalmnete quelli che si rifacevano agli strumenti della psicanalisi e della semiotica, per arrivare a quelli attuali, senza nerbo e senza vigore, neutri, capaci solo di presentare, ma non di giudicare, di valutare, privi di passione e di personalità. Da qui si può concludere che la critica letteraria è un genere letterario, come tutti gli altri nato in un determinato momento storico, sviluppatosi in forma ipertrofica nel Novecento, e di conseguenza destinato forse come altri a trasformarsi, se non addirittura a concludersi nel caso appunto venga a mancare l’elaborazione di sistemi filosofici capaci di determinare un’estetica e quindi fornire strumenti di valutazione. Al di là c’è solo il soggettivismo del gusto e la pratica del riuso, che da Omero in poi, per molti e molti secoli, ha selezionato i testi, tramandandocene alcuni e facendo cadere altri nell’oblio fino a farli scomparire, pur senza lasciarcene argomentate motivazioni.
Grazie per questa precisa analisi, Rosa Elisa.
Ma, allora, come è possibile ridare vigore alla critica letteraria, questo corpo spesso privo di curiosità e di passione? Molti critici abbondano di argomenti e sembrano accontentarsi dell’esercizio delle proprie capacità dialettiche (un modo come un’altro di sentirsi ancora vivi?). Altri sono dei giganti che guardano la letteratura dall’alto del loro sapere o della loro visione ideologica della vita (ma da quelle vette il mondo è un puntino insignificante). Qual è dunque la soluzione? Da dove ripartire?
Forse da quelle due paroline che Wyslawa Szymborska ha elogiato nel discorso pronunciato in occasione del conferimento del Nobel: “non so”. Ma di questi tempi chi ha il coraggio di pensare di se stesso o di dire pubblicamente di non sapere? Di sentirsi ancora un bimbetto che tutto ancora deve conoscere, che ancora deve sgranare gli occhi sul mondo?