Il Colosso di New York

Come si descrive una città? Si può decidere di redigere un reportage, una sorta di documentario. Si può compilare una guida turistica. Si può scrivere un romanzo ambientato nelle sue strade. Se ne possono mostrare le suggestioni nei versi di una poesia.

Non sono pochi gli scrittori che hanno gettato lo sguardo sulla città di New York, del resto, né i film e le musiche che ne hanno voluto rappresentare l’anima. Il romanzo Il colosso di New York percorre tutte queste strade filmiche, musicali, prosastiche, poetiche, e così ne trova una propria, singolare.  L’autore è Colson Whitehead, una delle giovani promesse mantenute della narrativa statunitense. Nato nell’Upper West Side di Manhattan nel 1969, cresce leggendo i libri di Stephen King e i fumetti della Marvel. Studia e si laurea ad Harvard e torna poi a New York dove lavora come giornalista e critico televisivo. Insieme all’attività giornalistica coltiva la passione per la scrittura narrativa. I suoi romanzi sono pubblicati in quindici Paesi.

Una prosa di intensità poetica
Sfogliando le pagine del volume ci si rende subito conto della prosa di intensità poetica, che ha il gesto di un piano sequenza cinematografico e un ritmo di intensa musicalità (ad esempio, lo scrittore Gabriele Romagnoli ha accostato a questo libro la musica di Pat Metheny, Dave Matthews e Damien Rice). L’equilibrio tra prosa e poesia qui è raro ed è sostenuto, oltre che dal ritmo di vita della città, anche dal ritmo dell’architettura dei suoi luoghi.
Whitehead non racconta storie, ma offre prospettive, angoli di visuale, sguardi panoramici, postazioni da cui ricevere segnali efficaci ed eloquenti sul senso e il gusto della metropoli statunitense, sapendo che parlare di New York significa in qualche modo, parlare del mondo: ogni città è, infatti, a suo modo, un mondo. La cosa più importante è la sintonia. Occorre entrare in sintonia unica e privilegiata con una città per intuirla: «Io sto qui perché ci sono nato e quindi sono inadatto a qualsiasi altro luogo, ma di te non so», scrive Whitehead all’inizio del suo libro, quasi a sfidare il lettore e a dichiarare una relazione unica, forse gelosa. La «verità» su New York non ha nulla a che fare con l’oggettività: essa deve passare da un rapporto personale, viscerale, unico.
L’unicità della relazione è data dal fatto che la città in se stessa non è rappresentabile: ciascuno si costruisce la propria New York a partire dal primo contatto avuto con essa. Ci sono otto milioni di «nude città» lì dentro: «Eri sceso a Penn Station, nel traffico frenetico e vertiginoso dell’Ottava Avenue e sei svenuto. Ferma quell’istante: è il tuo primo mattone». E’ un colpo di fulmine che sta tutto in un’istantanea indimenticabile. Ognuno può raccontare la propria. L’intensità del rapporto è reciproca, infatti «la città ti conosce meglio di chiunque altro, perché ti ha visto quando eri solo. […] La città ha visto tutto e se lo ricorda». Tra la città e chi osserva si realizza una conoscenza interiore, intima anzi. La città vede e legge la coscienza anche nella sua solitudine. E’ un narratore onniscente essa stessa, forse, in quanto serbatoio di storie: «Pensa a cosa potrebbero dire le vecchie case che hai abitato se si scambiassero aneddoti sul tuo conto. Saprebbero ricostruire l’inizio e la fine di ogni storia d’amore, potrebbero lamentarsi del tuo guardaroba e dei tuoi gusti musicali […]». Sulla base di questa premessa Whitehead costruisce dei quadri a partire dai luoghi chiave della città: Port Authority, Central Park, Broadway, Coney Island, il ponte di Brooklyn, Times Square, Downtown, l’aeroporto Kennedy,… Si delinea un viaggio che, tra l’arrivo dalle scale che sbucano dalla Penn Station al volo in partenza dall’aeroporto JFK, rappresenta un cammino che ha in Dante il proprio modello. La città, in fondo, è una forma di aldilà, un riassunto dei destini umani, un insieme compatto di esperienze, un luogo privilegiato di meditazione sull’esistenza.

Uno sguardo mistagogico
Lo sguardo dell’autore si appoggia su ciò che esso vede, lo descrive minuziosamente con sguardo fisso e attento a cogliere i punti di fuga, le metafore quotidiane. Whitehead diventa il mistagogo che conduce ai misteri della città, che sono i misteri della vita. Così l’autista di uno dei tanti pullman che approdano a Port Authority si rivela «una specie di sacerdote, salva le anime dei passeggeri cambiando le marce». Ogni realtà custodisce un mistero vivace. Così lo stridio meccanico delle serrande aperte al mattino è una macchina «che si allunga con ciglie e ingranaggi a reclamare i nostri colpi, a svegliarci», di fronte alla quale il cuscino diventa una «scialuppa di salvataggio». Per strada «c’è tanta gente che corre. Qualcosa li insegue, forse. Sì, qualcosa di diverso insegue ciascuno di loro e guadagna poco a poco terreno». Attimo per attimo, momento per momento, l’esperienza di una giornata newyorkese è indagata nel suo intenso simbolismo, persino minaccioso: «un grattacielo prepotente spunta a occidente, un altro, un’intera banda a oriente e all’improvviso esci con le mani in alto, circondato». La città può essere «famelica», infatti.
La mattina, anzi l’intera giornata, «diventa un testo che bisogna leggere». La metropolitana è il luogo dell’attesa (del treno), della scelta (della carrozza), dello sguardo sui volti e sui destini fino all’allucinazione: «hanno messo rotaie fino al centro della terra ed è lì che siamo diretti. Girano storie di linee fantasma, di stazioni stregate. Tutti siamo passati davanti a stazioni spettrali, con le uscite murate e graffiti arzigogolati che mettono in guardia i passeggeri. Lasciate ogni speranza o voi che entrate. […] Ecco la spiegazione: è morto oggi senza saperlo e ora il treno lo sta portando agli inferi». Sul ponte di Brooklyn invece coloro che fanno jogging correndo vedono soltanto «”il personale skyline interiore”, da tempo indifferenti ai miracoli che li circondano». E allora l’invito: «Guarda a occidente per evocare gli oceani, cerca la prova di non essere stato sempre costretto a terra. Il resto del mondo abita la tua visione periferica. Un panorama nuovo li spinge all’introspezione. L’introspezione è un appuntamento poco importante, quassù, ci si va spinti dalla vista e dalla prospettiva, due mazzi di fiori banali». E qui si sentono gli echi e le suggestioni di Walt Whitman, di Hart Crane, di Emily Dickinson, di Dos Passos,... Tra reale e immaginario la veduta è sempre una «visione». New York non è mai una «città invisibile». E’ visibilissima, invece. E’ proprio lo sguardo fisso sulla sua realtà a prendere coscienza del valore e della densità di ogni evento, di ogni azione, di ogni luogo.
La fine della giornata, il crepuscolo, è «una fabbrica di maschere»: «suona il gong e tutti escono dagli appartamenti, dai personaggi che interpretano sul posto di lavoro, scendono nelle strade, si calano nelle sembianze notturne». Le luci di Times Square evocano una riflessione intensa e acuta: «La solitudine è la cosa peggiore, perché è una consapevolezza che può essere soltanto patita, non condivisa». Tutti escono alla ricerca di una salvezza: «Tutti fuori. Ultima fermata. Guarda il cielo. Ad est. C’è la luce con i suoi colori ufficiali, la luce del sole sul vetro rotto, la luce del sole sopra le case, finalmente, e siamo salvi». Il viaggio si conclude col volo: «poi l’aeroplano vira nella fuga e sopra l’ala grigia la città esplode ai tuoi occhi con tutte le sue strade, le guglie, l’imperscrutabile frenesia, e mentre cerchi di interpretare quello spettacolo ti rendi conto di non esserci mai stato davvero». In effetti, chiudendo il libro, si ha uno strana impressione. Chi è stato a New York riconoscerà come vera, per filo e per segno, l’evocazione di Whitehead. Sa che egli scrive il vero. E tuttavia si ha l’impressione che egli abbia scritto a occhi chiusi, come se stesse dipingendo un panorama ormai del tutto interiore, i cui colori sono tutti nell’anima.

Parlare del mondo
«Quando parlerai di questo viaggio – e lo farai, perché è stata davvero un’esperienza e hai visto tante cose, ci sono stati momenti belli e momenti brutti, improvvisi rovesci di fortuna e fughe dell’ultimo minuto – proprio qualcosa di speciale – vedrai i tuoi amici annuire come se capissero. Diranno: Questo mi ricorda…e: Capisco perfettamente. Sanno di cosa parli prima ancora che tu abbia pronunciato le parole. Parlare di New York è un modo per parlare del mondo». E’ vero: per Whitehead parlare di New York è un modo per parlare dell’uomo, delle sue vicende e dei suoi destini. E’ un viaggio nell’abisso, nel caos, nell’esuberanza, nella promessa nascosta, nel batticuore. Il panorama esteriore è sempre insieme perfettamente e coerentemente reale e insieme metaforico, simbolico, interiore e sentimentale. Leggere Il Colosso di New York dunque plasma il modo di guardare e lo allena alla profondità. Tuttavia, bisogna riconoscerlo, l’occhio dello scrittore è poco poroso. C’è scambio di immagini tra chi vede e ciò che è visto, non c’è invece scambio di fluidi. I suoi tredici quadri, che poi sono i capitoli del libro, sono impressionistici, generati dalla luce, densi di puntini che, messi insieme e proiettati sulla retina, rappresentano ciò che si vede. La grana è ben visibile. L’opera si gioca tutta sul confine tra la realtà e la surrealtà. Ma è proprio questa sgranatura che permette al lettore di costruirsi la propria immagine, la propria New York e dunque il proprio mondo. E così si giustificano le enormi sollecitazioni nei confronti del lettore: vertigiosi cambi di soggetto, spostamenti improvvisi di prospettiva, ritmi cangianti, mutamento di voci narranti ed altro ancora. Chi legge è risucchiato dentro le pagine spinto a completare ciò che Whitehead lascia in bianco nei passaggi. I tredici quadri quindi non sono cartoline illustrate, ma immagini evocative, a volte un po’ mosse, a volte invece perfino troppo a fuoco. Paradossalmente il volume può diventare una sorta di guida alternativa alla città, libro da tenere tra le mani e da leggere in piedi per imparare a guardare al di là di ciò che si vede. Il colosso di New York allora può servire come spinta a leggere la realtà urbana in maniera differente, attenta, intensa, quasi un esercizio spirituale, pronto a cercare e trovare significati dovunque, a trovare persino il «deserto nella città», secondo il titolo di un famoso libro di Carlo Carretto. Può dunque essere un esercizio di sguardo sul mondo, di osservazione della trama del reale più ordinario, ricordando che la realtà supera sempre la fantasia. Lo scrittore Tullio Avoledo, in un suo articolo sul volume di Whitehead, ha colto persino «echi dell’Ecclesiaste e di altra antica saggezza». E non ha torto.

Non ci sono storie ne Il colosso di New York, eppure ce ne sono tante, tutte in potenza. Whitehead dà voce a chi affolla la città dal mattino alla sera in un caleidoscopio di sensazioni, ricordi, incertezze e speranze. Tra le righe si coglie una ricca umanità in movimento. La Grande Mela appare brulicante di storie, ma il libro fa astrazione da qualunque storia particolare, persino dai fatti storici o di cronaca, quali quelli tremendi, impossibili da rimuovere, dell’11 settembre 2001, a cui non si fa alcuna allusione. Perché? Perché tutto questo è lasciato a chi legge. Lo scrittore non intende esaurire la visione: intende solo provocarla, darle una direzione, avviarla. E’ il lettore che, pagina dopo pagina, si sentirà chiamato a fermarsi, a immaginare, a dar corpo a un’umanità che sembra traboccare dalla pagine del libro alla ricerca di un senso e di un compimento.

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  1. lisa ha detto:

    Libro bellissimo,letto qualche anno fa. Scritto tutto in un’ipnotica seconda persona ( cosa non semplice)con cui si viene coinvolti e attirati nello sguardo dell’autore. Una prosa poetica la sua serrata,inccalzante fatta spesso di brevi frasi per cogliere i particolari minimi e ingigantirli e da cui, leggendo. si viene benevolmente assediati. NewYork ti gira intorno e vi si entra come in un qualcosa che sa prenderti con sé.
    Sì,decisamente un gran bel libro che vado a sfogliare spesso soprattutto per la tensione della sua prosa ricchissima di immagini mai banali con cui non solo NewYork esce dai suoi stereotipi ma anche il suo rapporto con chi la abita e la vive.

    lisa

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