Lepanto

di Guglielmo Spirito

Savona, marzo 2009 – Sentieri che non conosco, che si snodano, si srotolano, si distendono al di là dei colli romani, al di là della reggia di Caserta, al di là dei crinali appenninici – terra di lupi -, giù giù per la piana piatta del Salento.
Lecce, la barocca, la città del tufo lavorato in facciate di un ricamo plateresco che la rende una contrada dell’Andalusia o magari del Messico coloniale. Dentro la chiesa del Rosario, già domenicana, appena lasciati una via ed un portale dei tempi e con gli stemmi di Carlo V, dall’alto del retablo, in cima, mi sorride la lignea figura di suo figlio naturale, il grande don Giovanni d’Austria, il vincitore di Lepanto.
Il sole abbagliante rifrange nei ghirigori degli altari di un biancore lucente, trafiggente. Dardi di luce nella volta vuota, tenda bianca trapuntata di contorsioni di stucco, riempitasi di echi sordi, grida soffocate, esclamazioni, spari, sciabolate che tingono le mura avvolgenti e il grigio pavimento di rosso sangue in un mare blu cobalto. Domenica 7 ottobre 1571.  Il Mediterraneo Blu Cobalto non sarebbe stato mai più un lago musulmano; il mito dell’invincibilità della flotta ottomana è definitivamente infranto.
Tranne che per le flotte di zattere e barconi che tendono ad arrivare, con un carico nordafricano di esausti, sfiniti e disperati, alle nostre spiagge.  Come galeotti superstiti dall’affondamento della loro galea, sempre e comunque in qualche modo schiavi bramosi di vivere in libertà…

Le occasioni della vita sono infinite
e le loro armonie si schiudono ogni tanto
a dar sollievo a questo nostro pauroso vagare
per sentieri che non conosciamo.

Pier Vittorio Tondelli
Le acciughe fanno il pallone
che sotto c’è l’alalunga
se non butti al rete
non te ne resta una
non te ne lascia una
non te ne lascia.

(Le acciughe fanno il pallone)

Don Giovanni morì a trentatrè anni, qualche anno dopo la vittoria, fra le braccia del suo fraterno amico Alessandro Farnese mentre, nel delirio, lanciava ordini in una immaginaria battaglia.
G.K. Chesterton rende l’eroe in modo splendido nel suo poema epico Lepanto, ed in uno splendido saggio (If Don John of Austria had married Mary Queen of Scots) racconta brillantemente una storia di amore e di salvezza che non ci fu.
Mi guardo attorno. Non ci sono giannizzeri ululanti qua in Puglia, né pirati barbereschi, stendardi sventolanti, formazioni navali in forma di croce o di mezza luna; non spagnoli, veneziani, maltesi, genovesi in torno a me. Solo Dino sta là, e poi – più tardi – Loris, e  infine Luca, passionista.

Ancora più lontano, nell’eco dei secoli, arriva la figura – pressoché irriconoscibile nel suo costume salentino – di sant’Antonio Abate, festeggiato grandemente a Novoli, e quella più vicina nel tempo e assai familiare del mio confratello san Giuseppe da Copertino.
E finisco per confondere i tempi ed i luoghi, e si mescolano con il mare insanguinato i voli del frate copertinese alla Grotella nel vecchissimo film C’era una volta (con Omar Shariff e Sofia Loren),  e le passioni di Il sole anche di notte, ispirato a Padre Sergio di Tolstoj. Asceti, eremiti, soldati, tagli, sangue e, finalmente – inaspettatamente – pace.

Risalgo verso nord, verso Roma, e poi – assieme ad Emanuele – su su verso Genova, inerpicandoci per il Lazio e a la Toscana. Lascio che i ricordi delle epopee, delle guerre verso fuori e verso dentro si espandano e si dilatino come una nebbia calda, dorata con il colore e l’odore del sole rasante. Come nel film di Sokorov Padre e figlio, sui tetti lontani di una città sulla riva di un mare o di un fiume-come-il-mare.

Umbre de muri muri de mainé
dunde ne vegnì duve l’è ch’ané
da ‘n scitu duve a luna a se mustra nuâ
e a nuette a n’à puntou u cutellu ä gua…

E ‘nt’a barca du vin ghe navighiemu ‘sci’ scheuggi
emigranti du rìe cu’i cioi ‘nt’i euggi
finché u matin crescià da puéilu rechéugge
fré di ganeuffeni e dè figge
bacan d’a corda marsa d’aegua de sä
che a ne liga e a ne porta ‘nte ‘na creuza de mä .

(Creuza de mä)

Anche Genova non è più una città sconosciuta e impenetrabile, ostica e taccagna. Anzi, grazie alla perizia accogliente dei miei cugini Giorgio e Stefania, la città – e il suo immenso centro storico – si apre, si svela, si spiega nella deliziosa rete di viuzze strette e acuminate, nel cumulo di cortili nascosti e di preziosità celate; nei sapori e nei colori, nei profumi e nella parlata dolce e rallentata.
Se t’inoltrerai lungo le calate dei vecchi moli
in quell’aria spessa carica di sale, gonfia di odori,
lì ci troverai i ladri, gli assassini e il tipo strano,
quello che ha venduto per tremila lire sua madre a un nano.

(La città vecchia)

Nel tepore ritrovato di radici e di casa che la Liguria dei miei avi ha per me – e Savona e la sua Albissola ancora di più. E nella musica. Al ritmo delle canzoni di Fabrizio De Andrè, la cui splendida Mostra al palazzo Ducale mozza il fiato.

Nel Museo del Mare – storia della marineria genovese -, scorre di nuovo davanti ai miei occhi ( ma adesso gli oggetti sono tangibili, non come nella chiesa leccese del Rosario) la violenza ardua della vita sul mare e sulla costa, dal tempo di Colombo lo scopritore in poi.
Nella saga salmastra dell’Ammiraglio genovese – Christum ferens – (‘Terra! Terra! Siamo giunti alfine alla meta tanto sospirata’), entriamo anche noi.
Da me le vecchie regioni della terra, soffocate e ristrette, furono disciolte e dilatate, da me furono arrotondati e congiunti gli emisferi e l’ignoto col noto – scrisse Cristoforo con la mente, la voce e la piuma di Walt Whitman.

Le immagini ed i suoni non scendono dalle bianche mura della mia immaginazione, ma dai pannelli allestiti nelle sale. Un viaggio a bordo di una lunga storia, bagnata di onde di acqua salmastra e di tanto sudore, lacrime e sangue.

Ho avuto la fortuna di nascere in questa etnia, in questo piccolo dove si parla una lingua diversa.
I genovesi sono nati poveri, e i loro commerci hanno dovuto farli via mare, lontano da casa.

E poi ti attacchi a fatti fisici, sapori, odori:
“frittûa de pigneu giancu de Purtufin
çervelle de bae ‘nt’u meximu vin
lasagne da fiddià ai quattru tucchi
piaciûgu in aegruduse de lévre de cuppi”

(Creuza de mä)

I villaggi riviereschi dalla Liguria alla Calabria sono trapassati dai saccheggi e dai rapimenti, le scorribande orrende – durate secoli – dei pirati turchi o moreschi, cercatori di schiavi: di rematori per le galee, di carne umana per i mercati, per gli harem, annessi e connessi.  Il riscatto, un affare colossale, costosissimo e lento, e frati ‘redentori’, mercenari e trinitari non bastavano. Il commercio di ‘forza motrice’ umana ai remi era il combustibile del motore dell’economia del tempo, sia tra i musulmani che  tra i cristiani.
Decine di migliaia, molti liguri, ma soprattutto calabresi. Gli schiavi rematori erano incatenati e costretti a vivere a contatto di gomito, dormendo appoggiati al remo e mangiavano ed esplicavano tutte le altre funzioni corporali senza mai staccarsi dal banco. Questo il contesto infernale della battaglia gloriosa di Lepanto, memoria – prima – di N. S. della Vittoria, poi di N. S. del Rosario, fino ad oggi.

Quanti pezzi di ricambio
quante meraviglie
quanti articoli di scambio
quante belle figlie da sposar
e quante belle valvole e pistoni
fegati e polmoni
e quante belle biglie a rotolar
e quante belle triglie nel mar.

(Ottocento)

Seguono i grossi galeoni e i velieri dei tempi migliori, ed infine i piroscafi che porteranno altre migliaia di disperati al di là degli oceani, a cercare vita e fortuna nelle Americhe, verso il tramonto dell’800 e l’alba dell’900. Tra i tanti, i miei, i nostri parenti. Piccoli magari – come le gemelle Sofia e Beatrice, mie cuginette, che trovano in Emanuele un babysitter di eccezione; o adulti già invecchiati come nonno Giuseppe, che non rivide più la sua Liguria natia. Difficile trovare uno nel Bel Pese che non abbia qualcuno emigrato in quei piroscafi.
Noi tre eravamo un semplice esempio vivente.
D’ä mæ riva
sulu u teu mandillu ciaèu
d’ä mæ riva
‘nta mæ vitta
u teu fatturisu amàu
‘nta mæ vitta
ti me perdunié u magún
ma te pensu cuntru su
e u so ben t’ammii u mä
‘n pò ciû au largu du dulú
e sun chi affacciòu
a ‘stu bàule da mainä
e sun chi a miä
tréi camixe de vellûu
dui cuverte u mandurlin
e ‘n cämà de legnu dûu
e ‘nte ‘na beretta neigra
a teu fotu da fantinn-a
pe puèi baxâ ancún Zena
‘nscià teu bucca in naftalin-a .

(D’ä mæ riva)

L’amore è come un dono degli dei che si muove sulle ali del vento sempre inafferrabile e sempre inseguito; l’amore non è mai là dove lo cerchiamo e vola via da dove lo crediamo. Proprio per questo e dell’amore e degli dei dobbiamo imparare a fare senza, scrisse tragicamente – e onestamente – Tondelli.
Come la fame triste – disperata – che si intravede negli sguardi dei primi frequentatori – uomini e donne, indistintamente – che si avviano verso i locali notturni, appena mettiamo piede sul lungomare.

Ho licenziato Dio gettato via un amore
per costruirmi il vuoto nell’anima e nel cuore
Le parole che dico non han più forma né accento
si trasformano i suoni in un sordo lamento
Mentre fra gli altri nudi io striscio verso un fuoco
che illumina i fantasmi di questo osceno giuoco

Come potrò dire a mia madre che ho paura?

Chi mi riparlerà di domani luminosi
dove i muti canteranno e taceranno i noiosi
Quando riascolterò il vento tra le foglie
sussurrare i silenzi che la sera raccoglie
Io che non vedo più che folletti di vetro
che mi spiano davanti che mi ridono dietro

Come potrò dire la mia madre che ho paura?
(Cantico dei drogati)

Per uno strano paradosso, è quasi tutto vero – eccetto che possiamo farne a meno. Non possiamo farne a meno! Come Lorenzo, a cui è dedicata la cattedrale di Genova – e Giuseppe che accompagna e guida il suo figlio-non-suo, il suo piccolo Gesù mentre cammina, in una statua nella navata destra. O Giorgio uccisore-di-draghi, patrono della Superba Repubblica genovese. Loro vissero, soffrirono, lottarono e morirono per amore.
Non ne possiamo farne a meno, e ci viene dato, donato,  senza che possiamo afferrarlo o trattenerlo, ma attraversa con il suo godimento – e non solo – ogni incontro vero, ogni appartenenza vera. Godimento e gioia, libertà di essere te stesso, di essere spossessato da te e di non possedere l’altro. Gratuità e ristoro, gioia e appartenenza senza possesso, come riecheggia nell’Esortazione Apostolica Gaudete in Domino di Paolo VI.
Tutto mi corrisponde, perché mi è dato; tutto mi corrisponde perché è riempito di Lui (Col 2, 5) Amor, amore onne cosa clama, nel dire del francescano Jacopone da Todi.

Mi riprendo così un po’ di me, del mio me sbrodato e stanco – da galeotto -, lo distendo al sole tiepido negli scorci delle piazze e dei vicoli, lo curo, lo secco, lo allargo e lo spando davanti alla città Superba che si stende, si versa, rotola tortuosa, arrampicandosi giù dalle colline, afferrandosi a sé, strette, case e vie e campanili, avvinghiate gli uni sopra gli altri, verso il vasto, solenne, famoso porto.
Giorgio (il Cavaliere-sul-drago), attraverso l’altro Giorgio – mio cugino -, ed Emanuele – mio amico -, sembra spaziare, facendo piazza pulita in me di squame, grinfie, code melmose, aliti infuocati e denti avvelenati. Di ceppi e catene e immondizie varie.

Il cuore rallenta la testa cammina
in quel pozzo di piscio e cemento
a quel campo strappato dal vento
a forza di essere vento.

(Khorakhané – A forza di essere vento)

So però che non è lui a farlo, bensì uno più vicino e ben più presente, la cui presenza forte sento tangibile come un ammiccamento, un tocco rispettoso. E’ colui che ha accolto, allevato e difeso il Dio-con-noi: Giuseppe figlio di Davide, salvatore del Salvatore, custode e protettore, scudo e difensore. Educatore. Padre di me, figlio nel suo Figlio.  Salva in me il figlio dall’eccidio divoratore del dragone erodiano. Da me a me stesso, rinato, a salvo. Spazioso. Cresciuto.
Non offro resistenze, non trattengo il passaggio dello spazza-draghi, sento lo spazio che si apre – di un respiro vasto come il mare; e, come per un bambino, appoggiare la testa nell’incavo di un torso vigoroso, in un giaciglio caldo e odoroso, e sto bene, allora sto bene davvero. Al sicuro. Virilmente custodito.

Cvava sero potute
i kerava
jek sano ot mori
i taha jek jak kon kasta
vasu ti baro nebo
avi ker.
Kon Kon ovla so mutavla
kon ovla
ovla kon ascovi
me gava palan ladi
me gava
palan bura ot croiuti .

(Khorakhané – A forza di essere vento)

Spazio, aria tonificante. Godimento. Senso di appartenenza. Spaziosità. Gioia. Intimità raggiunta. Spossesso di se. Ritrovo di te, dell’altro. Unione consumata. Vita in abbondanza. Povertà e libertà. Gratitudine che sale e sommerge come il mare scintillante e un cielo chino sulla terra.  Un cielo ed un mare ed una terra pieni di cielo.

Ama e ridi se amor risponde
Piangi forte se non ti sente
Dai diamanti non nasce niente
Dal letame nascono i fior.

(Via del campo)

Il drago è stato ancora una volta ucciso.
L’infanticidio impedito.
Lepanto ha una nuova vittoria.

Tutto è bene, e bello, e benedetto. Militia est vita hominis super terram, come dice il Giobbe della Vulgata latina. E’ bello fuggire con Cristo, quando è inseguito, scrisse Gregorio Nazianzeno.

Ma sempre e comunque la vita è bella. Perché noi non siamo più soli. Siamo amati e desiderati, e si, amo al  largo.

Larghi, vasti, ampli, liberi e inscindibilmente uniti nell’oceano di amore dei Tre.

E adesso aspetterò domani
per avere nostalgia
signora libertà signorina fantasia
così preziosa come il vino così gratis come la tristezza
con la tua nuvola di dubbi e di bellezza.

(Se ti tagliassero a pezzetti)

(PS: Questa lettera è mia, ma non solo mia -come quasi tutto, del resto-. Le canzoni di Fabrizio De André, intercalate a intarsio nel testo, sono state scelte e collocate da Emanuele Rimoli)

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  1. dino levante ha detto:

    Veramente bello il tuo scritto. Congratulazioni e grazie per la citazione.
    Dino da Lecce

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