Antonia Pozzi: all'altra riva
Il 3 dicembre 1938, moriva, a soli ventisei anni, Antonia Pozzi, una delle voci femminili più intense della poesia italiana del Novecento. Il giorno precedente un contadino l’aveva trovata distesa in un prato nei pressi dell’abbazia di Chiaravalle, semiassiderata e priva di sensi per l’ingestione di barbiturici. A settant’anni dalla morte, la teologa Cristiana Dobner, carmelitana scalza, in un agile saggio edito da Marietti e intitolato All’altra riva, ai prati del sole. L’immaginario di Dio in Antonia Pozzi, ripercorre i luoghi, i volti, gli amori, le sconfitte, le gioie che hanno popolato la vita della giovane.
Sebbene in vita Antonia Pozzi non abbia pubblicato neppure un verso (la sua prima raccolta uscì postuma nel ’39), si assiste oggi a un interesse crescente sulla sua opera da parte di critici, accademici, editori e lettori. Fenomeno sottolineato, nell’introduzione al saggio, dal poeta Davide Rondoni: “In effetti, alcuni dei tratti di impotenza affettiva, di sofferta separatezza, e, in sintesi, di inverno dell’io, che ritroviamo nella poetessa, segnano oggi il volto di tanti, specie di giovani, insieme alla medesima confusa aspirazione a Dio”. Insomma, nell’esperienza di quella giovane donna tradotta nelle righe dei suoi diari, lettere e versi si agitano in modo serio e partecipato problemi e tensioni che ci abitano. “Antonia sta divenendo sempre più soggetto del paradigma culturale odierno”, precisa a sua volta l’A. Inquietudine, inappagamento e ricerca sono i punti di partenza emotivi e esistenziali esposti con sincerità assoluta e quasi disarmante nelle poesie di Antonia Pozzi: “la mia vita era come una cascata / inarcata nel vuoto”, recitano i versi di Vicenda d’acque. Ma nonostante ombra e luci si alternino fino all’ultimo, nella sua vicenda finirà via via per acutizzarsi e prevalere la percezione di un precipizio oscuro, dove la morte scorre sotterranea e seducente, sotto forma di tregua, ristoro, parola eterna e definitiva.
Antonia Pozzi nasce a Milano nel 1912 da una famiglia dell’alta borghesia lombarda: il padre è un noto avvocato, la madre è una contessa. La ragazza frequenta il liceo Manzoni, luogo dove avviene l’incontro decisivo della sua breve esistenza: quello con il professore di latino e greco, Antonio Maria Cervi, di cui si innamora e con cui avrà una relazione difficile, sofferta, contrastata e infine violentemente troncata dal padre di lei. La sete di vita della giovane, in questa come il altre occasioni, si scontra fin da subito con un muro sociale altoborghese: l’elegante palazzo liberty in cui vive a Milano, in via Mascheroni, diviene il simbolo di una vita protetta e sicura, ma profondamente insoddisfacente, quasi spaventosa. Un ambiente sociale e familiare incapace di accogliere l’inquietudine di un’adolescente prima e di una donna fragile e complessa poi. Eppure, come ben sottolinea l’A. nella sua ricognizione riguardante i luoghi fisici intesi come topoi dell’interiorità di Antonia Pozzi, nella casa di montagna a Pasturo, in Valsassina, il sentire della poetessa si nutre e si espande: “Ho gridato di gioia, nel tramonto. / Cercavo i ciclamini fra i rovai”. Proprio la montagna, la Lombardia rurale, la natura popolata da un’umanità semplice rappresentano luoghi di serenità e ristoro, uscite di sicurezza da un’incalzante claustrofobia esistenziale. Nonostante la malinconia, quindi, sembra non spegnersi mai del tutto la speranza nel ritrovare un senso nella vita e placare i conflitti e le ferite dell’anima.
Proprio sul significato di questo termine, estremamente ricorrente nella Pozzi (“Niente era vero ed eterno come la vita della mia anima” scrive in una delle sue lettere), si sofferma la riflessione dell’A. che chiarisce: “Il termine “anima” si delinea semplicemente in chiave laica, come il sentire, il sentirsi vivo, quale sinonimo di animo, di interiorità, non di anima in senso di apertura all’Infinito, di incontro con Dio stesso”. Il rischio della sensibilità di Antonia Pozzi è quello di un estremo ascolto interiore che si accartocci su se stesso, il rischio di un’implosione esistenziale che da protagonista riduca la giovane donna a spettatrice della propria esistenza. Continua la teologa carmelitana: “Antonia rivela un grande profondo bisogno spirituale che si qualifica ed esprime nella ricerca e nel recupero dell’interiorità, nel silenzio e nella relazione con sé. Tuttavia manca l’elemento essenziale, manca l’Interlocutore. Non trova e sperimenta Dio, con cui interloquire e cui dare ascolto profondo”.
Eppure Antonia, nel colmo del dolore, si rivolge a Dio senza mezzi termini: una delle sue poesie più toccanti è intitolata Preghiera: “Perché tu sai, Signore, / che in un tempo lontano / anch’io tenni nel cuore / tutto un lago, / specchio di Te”. La giovane donna percepisce l’assenza di un Dio non conosciuto, ma intuito, ne sente un lacerante bisogno: i suoi versi sono un grido, un’implorazione, una richiesta d’incontro e rigenerazione, prima che il dolore riaffiori sommergendola: “Signore, per tutto il mio pianto, / ridammi una stilla di Te”
Recensione del volume: CRISTIANA DOBNER, All’altra riva, ai prati del sole. L’immaginario di Dio in Antonia Pozzi, Marietti 1820, Milano, 2008, pp.124. E16.
Sento di condividere la percezione della suora carmelitana per quel che riguarda la spiritualità di Antonia Pozzi. Penso tuttavia, che forse Antonia non ha avuto la possibilità di conoscere un DIo diverso da quello che la cultura del suo tempo insegnava. Penso ancora che non trova perché nessuno le ha indicato verso quale strada dirigersi…