Di meli in fiore e nuvole gocciolanti

Che ci sarebbe di male nel volersi cullare per qualche riga in uno di quei proverbi di cui nessuno conosce o ricorda l’origine? Di certo, non c’è niente di male nel fidarsi e affidarsi alla familiare espressione “il tempo guarisce tutte le ferite”. Il problema sorge, come sempre, quando mettiamo in dubbio qualcosa che ci è dato per buono. Eppure chiediamoci, per un attimo, cosa essa significhi veramente.

Facilmente riconosceremo, celati dietro le proverbiali “ferite”, nient’altro che i ricordi di eventi che hanno generato – e generano ancora – in noi una qualche forma di sofferenza. È innegabile che il tempo, con la sua connaturata facoltà di far susseguire, nel corso della nostra vita, un numero incalcolabile di esperienze, ci offra l’opportunità di essere plasmati e plasmarci in modo da far fronte alle difficoltà. Questo meccanismo di apprendimento e miglioramento di noi stessi non riguarda, però, esclusivamente le avversità future. Con una sorta di effetto retroattivo, anche ciò che abbiamo già vissuto viene reinterpretato attraverso nuove chiavi di lettura. L’esperienza ci aiuta ad acquisire strumenti come l’autocritica, l’empatia o la capacità di perdonare, in un processo di maturazione continua e auspicata. In questa metamorfosi, torniamo all’infinito sui nostri ricordi più irrisolti, rielaborando ciò che proviamo rispetto ad essi sulla base dei nuovi punti di vista che abbiamo acquisito. Potremmo dire, forse, che, più che curare la ferita, il tempo ci insegni ad affrontarne il dolore.

Un’esperienza, dunque, una volta vissuta, continua ad evolversi nella nostra mente sotto forma di ricordo. Così i puri fatti si trasformano in caleidoscopici frammenti di vite passate. Alla luce di questo, è possibile risalire ad una verità oggettiva nella nostra memoria?

La premio Nobel Louise Glück, nella poesia Nostos, torna così ai suoi ricordi d’infanzia:

C’era un melo nel cortile –
saranno forse
quarant’anni fa – dietro,
solo prati. Ciuffi
di croco nell’erba umida.

Stavo a quella finestra:
fine aprile. Fiori di primavera
nel cortile del vicino.

Quante volte, davvero, l’albero
è fiorito nel giorno del mio compleanno,
il giorno esatto, non
prima, non dopo? L’immutabile al posto
di ciò che si muove, di ciò che evolve.

L’immagine al posto
della terra inarrestabile. Che cosa
so di questo luogo,
il ruolo dell’albero per decenni
preso da un bonsai, voci
che vengono dai campi da tennis –

Terreni. L’odore dell’erba alta, tagliata di fresco.
Quello che uno si aspetta da un poeta lirico.
Guardiamo il mondo una volta, da piccoli.

Il resto è memoria.

Proprio nella strofa centrale, l’autrice si pone una domanda, l’unica esplicita nel componimento: quante volte il melo nel cortile di casa è fiorito proprio nel giorno del suo compleanno? Forse, nella nostalgia di quel periodo della vita, l’autrice lo ha idealizzato, sovrapponendo due ricordi felici – il giorno del suo compleanno e la vista del melo in fiore, per l’appunto. Dopotutto, l’intero componimento è un rincorrersi di immagini che quasi non possiamo dire se appartengano al passato o al presente. Dunque cosa sa per certo l’autrice? “Quello che uno si aspetta da un poeta lirico”. La verità oggettiva si perde qui a favore di una verità “emotiva”: ciò che importa sia reale è l’emozione positiva provocata da quel ricordo, l’emozione da cui nasce la poesia.

Molto ci si può non aspettare da un poeta – dopotutto l’arte è spesso rottura degli schemi – ma sempre ci si aspetta che sia dotato di immaginazione. Di nuovo, in Nostos Louise Glück scrive:

l’immagine al posto
della terra inarrestabile.

L’autrice si riferisce probabilmente all’aver cristallizzato delle immagini della sua infanzia a dispetto dello scorrere del tempo, ma non è da sottovalutare il distacco che la Glück pone in questi due versi tra “l’immagine” e la concretezza della parola “terra”. È vero che ciò che immaginiamo ha, necessariamente, alla base una realtà – non possiamo immaginare qualcosa che sia totalmente al di fuori delle nostre percezioni – ma l’immagine ideata finisce sempre per allontanarsene. Ciò che è immaginario non è immanente.

Come rappresentare due ambiti del reale che da sempre viaggiano paralleli, vicini ma senza incontrarsi? Come rappresentare il contatto tra reale e immaginario, quando si sta lavorando ad un album che porta proprio il titolo Imagine (“immagina”)? Probabilmente è la domanda che John Lennon e Yoko Ono hanno dovuto porsi nel 1971, cercando di realizzare una copertina adatta per l’album. La prima idea fu quella di scattare delle foto al viso di Lennon – con un primo piano molto stretto – e sostituire in seguito ai suoi occhi delle immagini di nuvole. Il risultato non piacque né a John né a Yoko, che lo ritennero, anzi, vagamente inquietante. Oltretutto, non veicolava il messaggio: l’album non era un invito ad entrare nell’immaginazione di Lennon, ma a cercare di riportare l’immaginazione nel mondo, per cambiarlo. Il processo che darà origine alla copertina dell’album proverrà da Yoko e verrà così descritto da John Lennon:

My album front and back is taken by Yoko as a Polaroid. (…) She took a photo of me, and then we had this painting off a guy called Geoff Hendricks who only paints sky. And I was standing in front of it, in the hotel room and she superimposed the picture of it on me after, so I was in the cloud with my head. And then I lay down on the window sill to get a lying down picture for the back side, which she wanted with the cloud above my head. And I’m sort of ‘imagining’.

[Il fronte e il retro del mio album sono stati scattati da Yoko come Polaroid. (…) Mi ha scattato una foto e poi abbiamo acquistato questo quadro da un ragazzo, Geoff Hendricks, che dipinge esclusivamente il cielo. Io ero davanti al quadro, nella camera d’albergo, e lei ha sovrapposto in seguito la foto del dipinto sulla mia, così ero con la testa nella nuvola. Dopo mi sono steso sul davanzale della finestra per scattare una foto per il retro dell’album, che lei voleva con la nuvola al di sopra della mia testa, come se stessi “immaginando”.]

Attraverso, dunque, la tecnica della doppia esposizione, Yoko Ono sovrappone la foto del dipinto di Hendricks, con la foto del viso di John. Le due immagini che andranno a costituire il fronte e il retro dell’album rappresentano, in questo modo, un ponte tra ciò che è reale – il volto del cantante – e ciò che è immaginario –  il cielo rappresentato da Hendricks.

A rimarcare la volontà, da parte dei due artisti, di stabilire questo legame tra i due piani della percezione umana, troviamo sul retro dell’album un breve componimento di Yoko Ono tratto dal suo libro di poesie Grapefruit  e intitolato Cloud Piece:

Imagine the clouds dripping,
dig a hole in your garden to
put them in.

[Immagina le nuvole gocciolanti,
scava un buco nel tuo giardino
per mettercele dentro.]

Qui Yoko chiede di immaginare delle nuvole, che dunque dovrebbero essere esclusivamente nella mente di chi legge. Subito dopo, però, consiglia di scavare una buca in giardino in cui metterle. Non dice di immaginare di scavare una buca in giardino, ma di uscire fuori, prendere una pala e fare una buca.

Le azioni di immaginare e di ricordare avvengono entrambe nella nostra mente, operano mettendo in relazione immagini, idee, emozioni, e si distanziano, così, dai puri fatti, ma sono pur sempre modi di relazionarsi alla realtà. Da essa partono e si evolvono per dare origine alla nostra percezione del mondo.

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