I rumori del silenzio

Il 33 giri da cui è tratto The sound of silence di Simon & Garfunkel si intitola Sounds of silence. Un plurale che passa quasi inosservato. Il silenzio non ha una definizione univoca o meglio è difficile da definire. Ma ciò che provoca ha una eco infinita, notevole. Quasi plurale.

Questa quarantena (chiamiamola così per convenzione) mi colpisce per il silenzio. Anzi, mi colpisce perché mi ha letteralmente costretto a concentrarmi sul silenzio. Lo sento, lo percepisco, lo vedo. In certi momenti mi stordisce, mi infastidisce, mi sovrasta. Non ci sono, non ci siamo abituati. Lego questa forte sensazione alla paura che domina questo momento: paura non voluta, non cercata, non sempre riconosciuta.

È di questi giorni la lettura online di un articolo firmato da Arabella Cifani su “Il Giornale dell’Arte” dove ho ritrovato paura e silenzio: la terribile piaga della peste dei primi decenni del XVII secolo a Torino e la sua rappresentazione artistica. Cito dall’articolo:

Nel 1627 i frati della Chiesa di San Francesco d’Assisi di Torino, con spirito profetico e gusto del funereo veramente molto torinese, fecero dipingere dal pittore Giovanni Battista Della Rovere (Torino, prima del 1604- Torino, 1631 circa) un cupo e spaventoso dipinto intitolato «Speculum humanæ vitæ». Il quadro, oggi al Museo Diocesano di Torino, è sempre stato ricordato dalle fonti storiche come presente nell’atrio del convento: una sorta di inquietante e beffardo benvenuto per i visitatori e i fedeli.

 

Lo Speculum humanæ vitæ accoglie e atterrisce chi varca la soglia del convento. Un’immagine ricchissima di metafore, di simboli, di riferimenti, un dipinto che parla senza parole, che urla nel silenzio del dolore e della disperazione e si sostituisce alla pletora di video e fotografie che questa quarantena sta riversando sui nostri nuovi e vecchi canali di comunicazione.

Una specie di strip in verticale, con il tipico fondo nero e un’unica vignetta in cui nasce e si conclude un racconto di terrore. Succede nell’arte. Succede che se la spieghi, se la racconti, l’arte si sbriciola. Te la perdi. Ma sempre l’arte è una chiave di lettura. Anche quando è davvero altro da una rappresentazione esaustiva. Perdendomi nella miriade di particolari di questo quadro ho avvertito quel senso di sazietà che porta ad alzare gli occhi per cercare altro, magari uno spazio vuoto.

Ho fatto un volo di qualche secolo e sono atterrata qui, a New York, dove il MOMA conserva i White Paintings di Robert Rauschenberg. La prima release di quest’opera risale al 1951 e si tratta di cinque opere composte da pannelli modulari dipinti completamente di bianco con un semplice rullo. Sul sito del Museum of Modern Art di New York, a proposito di quest’opera, si può leggere che “la forza dei White Paintings, sta nel lavoro che viene richiesto all’osservatore: spostare l’attenzione, rallentare la visione, avvicinarsi più volte all’opera per osservare attentamente la superficie cercando di coglierne i cambiamenti di colore, luce e texture.”

Quello che mi interessa è sottolineare che chi viene accolto nel museo (come il visitatore del convento torinese) è obbligato a compiere un’azione. Non può essere un osservatore passivo, gli viene chiesto di re-agire. Cosa si può fare di fronte ad un dipinto? Guardare, certo, ma anche ascoltare. Cosa che fece un amico di Rauschenberg, il compositore sperimentale John Cage. Ispirandosi ai White Paintings nel 1952 compose un pezzo musicale che più tardi definì l’opera più importante della sua carriera: la composizione 4’33’’ in tre movimenti, che prescrive al solista (di qualsivoglia strumento) di non suonare per tutta la durata del brano.

Cage ebbe a scrivere: «A tutti gli interessati: I quadri bianchi sono arrivati per primi; il mio brano silenzioso più tardi». Quadri bianchi ma mai “vuoti”, avevano l’energia e la forza di «cattura(re) tutto quello che cadeva sopra» e, con esso, l’accadere del tempo e delle cose. Allo stesso modo, 4’33’’ provoca nell’ascoltatore una sorta di delusione perché il nulla si sostituisce al qualcosa, sebbene il vero nulla non esista. 

L’accumulo cadenzato cui fa riferimento @BiancaTonelloA è un ponte che mi traghetta dal seicentesco Della Rovere a Vedova, a Rauschenberg fino a Cage. “In continuum”, senza soluzione di continuità, una giustapposizione di immagini, un muto passaggio di tempo e di significati. Una storia dell’arte. John Cage, per prepararsi alla realizzazione del pezzo visitò la camera anecoica dell’Università di Harvard. In questo ambiente, Cage avrebbe dovuto fare esperienza del silenzio più totale ma scoprì che “il silenzio non esiste”. Infatti, gli capitò di udire due rumori, uno acuto e l’altro più grave. Un ingegnere dell’università gli spiegò che aveva ascoltato il proprio apparato cardiocircolatorio e nervoso in funzione.

Sarebbe certo piaciuto a Cage il testo di una canzone del 1972 di Franco Battiato: il titolo è un gioco di inversione, Il silenzio del rumore:

Il silenzio del rumore/Delle valvole a pressione/I cilindri del calore/Serbatoi di produzione/Anche il tuo spazio è su misura/Non hai forza per tentare/ Di cambiare il tuo avvenire/Per paura di scoprire/ Libertà che non vuoi avere/Ti sei mai chiesto/ Quale funzione hai?

La quarantena probabilmente ci sta urlando un messaggio mentre noi aspettiamo che il futuro si faccia presente e proviamo a (ri)costruirlo. Non siamo alla ricerca del silenzio perfetto: ci attira il fatto che in realtà sia un’utopia; ma siamo alla ricerca di quel silenzio che interrompe il rumore che, in verità, governa ogni istante della nostra vita. Siamo alla ricerca della nostra funzione.

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