Sentenza di vita
Con le sentenze ingiuste è scritta la storia dell’umanità. O almeno quella dell’Occidente. L’evento mitico della filosofia greca, narrato da Platone nell’Apologia e nel Critone, è il processo a Socrate di Atene. E la condanna a morte di Gesù di Nazareth ci viene ribadita per quattro volte dai Vangeli. Se dalla storia passiamo alla fiction, non ce la caviamo meglio. Carlo Collodi dipinge con italica ironia il giudice gorilla il quale, dopo aver ascoltato commosso la deposizione di Pinocchio contro il gatto e la volpe, sentenzia benignamente: «Quel povero diavolo è stato derubato di quattro monete d’oro: pigliatelo dunque, e mettetelo subito in prigione».
Dovendo plasmare un demone in carne e ossa, Cormac McCarthy sceglie un uomo di legge – il giudice Holden – che alla sua prima comparsa accusa di pedofilia un predicatore, aizzandogli contro la folla, salvo precisare in seguito di non averlo mai visto prima. Ma la letteratura, per quanto grande, impallidisce davanti realtà della caccia alle streghe di Staggia e Massa Finalese; davanti al “caso” Enzo Tortora; davanti alle vicende giudiziarie di Carlos DeLuna e dei circa 340 innocenti condannati a morte negli USA.
Certo, ci sono poi giudici assurti a vere e proprie icone (ma solo dopo la morte). Giovanni Falcone e Paolo Borsellino sono universalmente riconosciuti come “santi laici”. Modelli ispiranti per chiunque. Il giudice, colui che persegue in una solitudine sempre più estrema il cammino della Verità: forse l’ultima figura eroica riconosciuta persino nella disillusa contemporaneità. Quella stessa contemporaneità disillusa che ha partorito i magistrati superstar (ma solo durante la vita), venerati a torto o a ragione come longa manus di una sete di giustizia popolare. Eccolo qua, allora, il dramma del giudice: guardiano della Legge, alto sacerdote delle soluzioni salomoniche, inappellabile dispensatore dell’Assoluto, egli può apparire solo al di sopra o al di sotto del livello umano, come ben sapeva Franz Kafka. Dèmone o divinità. Un “separato” assiso nel solitario Olimpo dell’equidistanza. Chiamato a essere infallibile, non potrà che disattendere le attese. Perché lo spazio del «così così» che Vecchioni rinfaccia al Signor Giudice, lo spazio della mediocrità, è lo spazio della vita. Ma un giudice non può essere mediocre. Non può fare compromessi. Perché proprio la compromissione è ciò che ne decreterebbe il tradimento della missione, il discredito, il fallimento. Come si può, insomma, essere “giudici giusti”?
«Stavvi Minòs orribilmente, e ringhia: / essamina le colpe ne l’intrata; / giudica e manda secondo ch’avvinghia». Minosse, il giudice infernale evocato in scena da Virgilio e poi da Dante, non è un giudice ingiusto. Nessuno ha studiato la materia meglio di quel «conoscitor de le peccata». È il custode della giustizia come intesa nel mondo classico, quello che ha fondato il diritto e ha eletto a proprie effigi la benda dell’imparzialità, la bilancia dell’equanimità e la spada dell’inflessibilità. Minosse dà a ciascuno ciò che merita. Unicuique suum. Ma ciò che ognuno merita – chiosa Alighieri, poeta cristiano ingiustamente esiliato – è l’inferno. Shakespeare, poeta non meno cristiano ma meno avversato dalle corti, mitiga la questione. Quando Amleto comanda a Polonio di alloggiare una compagnia di attori, il vecchio attendente – portavoce di una saggezza sdrucita da millenaria ripetizione – assicura che li tratterà «secondo il loro merito». Immediata è la reazione del dolce principe di Danimarca: «Per i chiodi di Cristo, uomo, molto meglio! Tratta ogni uomo secondo il suo merito e chi sfuggirà alle frustate? Trattateli sulla base del vostro onore e della vostra dignità. Quanto meno meritano, tanto più merito c’è nella vostra generosità». La persona del giudice come misura del giudizio: entra in scena la magnanimità.
Se da un lato il cristianesimo ha drammatizzato la condizione umana con la “Colpa originale”, dall’altro l’ha alleviata con la generosità di un “colpo di Grazia”. Un’imprevista, immeritata sentenza di vita che scombussola i conti, invece di regolarli. Sarà anche per questo che fatico a identificare nell’imperiosa figura assisa al centro del michelangiolesco Giudizio nella Sistina con colui che disse «Chi è senza peccato, scagli la prima pietra» e «Non giudicate per non essere giudicati». Non posso dimenticare che egli fu soprattutto una vittima innocente della giustizia. Se c’è in lui qualcosa che giudica, è soltanto la sua stessa innocenza. E allora nessuna immagine dell’ultimo Giudice potrà essere potente quanto quella del bambino inerme nella mangiatoia. Un giudice infante. Una provocazione che riguarda solo i credenti? Penso di no, se, come scriveva il “giudice ragazzino” Rosario Livatino, «quando moriremo, nessuno ci verrà a chiedere quanto siamo stati credenti, ma credibili».
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