Gran Torino, di Clint Eastwood
Walt Kowalski è un tipico vecchio americano. Il cognome sa di valigia di cartone, di salsedine respirata sul ponte di una nave, il groppo in gola alla vista di quella smisurata Madonna con la fiaccola. Le parole del giuramento recitato a Nostra Signora della Libertà sono state trasmesse di padre in figlio insieme agli occhi chiari e ai capelli biondi. In ogni ruga, un pezzo di MidWest. Gli anni ruggenti della giovinezza spazzati via dalla guerra di Corea; sangue e ordini e sangue e morte. Dopo il congedo, un lavoro in catena alla Ford; anni spesi a montare sterzi su auto che al momento si possono solo sognare. Ora c’è altro da fare: bisogna sposare la “ragazza più in gamba del pianeta”; poi due figli e una casetta in legno dipinta di bianco che si specchia su una striscia di prato verde e ben arieggiato. Una rimessa sul retro. Anno dopo anno si riempie di attrezzi; sudati uno a uno, sistemati in ordine sulle rastrelliere alle pareti, formano una corona. È già il 1972 quando Walt può incastonare il gioiello nel diadema: una Gran Torino, la più elegante coupé che gli sia mai passata tra le mani.
I “Seventies” se ne vanno tra il fumo di una sigaretta e un sorso di birra. I bimbi crescono a vista d’occhio. Sono già laureati che abbandonano il nido per far su famiglia. I vicini li seguono, uno dopo l’altro. Di bianco, nel quartiere, rimangono solo le staccionate. E Walt.
La moglie raggiunge il cielo, lui rimane sulla veranda a fumare. Più si guarda intorno e più non capisce. Sua nipote con l’ombelico al vento, i cellulari, il SUV Toyota del figlio. Sputa per terra. Va nel garage. Tira fuori la Gran Torino. Le fa compiere i 10 metri che la separano dall’ingresso del vialetto. Si risiede in veranda ad ammirarla. Vecchio cuore a stelle e strisce.
Tira brutta aria nel vicinato. Aria fetida e immigrata. Conviene girare armati ed esibire il ferro appena se ne ha l’occasione. Resistere alla violenza violentemente.
Altrimenti si finisce schiacciati come questi cinesi. Patria e famiglia sono valori alieni a questa genìa. Persino la razza non conta nulla. Che schifo. Guardali: si scannano tra loro come cani affamati.
E quel ragazzo, Ciao, Bao, Miao… Thao. Tardo, più che Thao. Sembra veramente stupido. Non reagisce, le prende e basta. Dovrebbe imparare dalla sorella. Lei sì che è un uomo.
Magari un vecchio americano potrebbe insegnargli qualcosa. Tempo sprecato? Forse.
Tempo e determinazione spaccano le rocce più dure. Nelle fenditure di Walt trovano riparo Thao e Sue Lor. Ma i loro aguzzini non demordono. Occorre ispessire il guscio per proteggere i due ragazzi. Anche se più possente e fiera è la resistenza, più massicci e vili sono gli attacchi.
Finchè Walt si arrende ad una lezione che mai avrebbe voluto imparare. Ma quando si ama…
Presentarsi disarmato all’ultimo duello. Così poco americano. Sulle labbra una preghiera a quel Dio che dice di non conoscere. Sull’asfalto, il ritratto di un povero cristo.
Cocciuto e coraggioso. Solitario e altruista. Matto e attraente. Elegante e per pochi. Americano. Come una Gran Torino.
Quando ero piccola mi piacevano i films western:
la figura dell’eroe, quello che era il massimo per me; quello che ce le prende perchè è buono ma sembra un codardo (tipo John Wayne di “Un uomo tranuqillo”) e poi alla fine sbotta e tutti lo rispettano perchè si dimostra il più forte e coraggioso…Poi no non mi è piaciuto più.
Ma “Clint” qui, è proprio il massimo per me…
Abito nella città, Royal Oak, Michigan (vicina a Detroit) dove è filmato la scena nel “Barbershop”. Ho visto l’equipe di Clint davanti la “Barbershop” mai non ha visto Clint. Conosco multi polacchi, ma non ha mai ascolto dei vecchi polacchi che esprimono con dei parolacce (gros mots) utilisti da Clint. Anche il nome Kowalski è un po’ cliché’-Kowalski è il nome della famiglia più famoso nella città di Hamtramck-(l’enclave polonaise di Detroit) famoso come fabbricante di saucissons polonese. Scusami il mio italiano, sono uno studente di italiano e amo multo il blog di BombaCarta-
Anch’io ho pensato a Un uomo tranquillo, e anche a un altro grande film di Ford: L’uomo che uccise Liberty Valance. C’è molto Ford in questo Gran Torino, come c’è Ford in ogni film americano degno di questo nome. E c’è molto vangelo. Parabola sull’amore e sul perdono, ma Gabriele l’ha ben sintetizzato, direi perfettamente. Kowalski è un nome molto cinematografico, basta pensare a Prendi i soldi e scappa di W.Allen (che film!). Clint è uno dei grandi rimasti in giro, godiamocelo con il gusto di chi prende il sole, con attiva passività.
Gentile Prof.r Andrea,
secondo me, nei films americani c’è: la lotta tra il bene e il male; il buono e il cattivo; l’eroe e l’eroina…
Il discorso di interpretare il vangelo,dicevo, non lo sapevo e, in “forma critica, molto critica, mi interesserebbe.
Insomma, si potrebbe continuare il discorso, quando riapre Officina Bombacarta?
Grazie
Il tratto che, a mio avviso, balza agli occhi nel passaggio da Mistic River e Million Dollar Baby, da un lato, a Gran Torino – tutti film da non perdere – è l’apparizione di un raggio di speranza (acceso dell’amore/sacrificio di sè) a rischiarare le sorti di quell’umanità dolente che, da ultimo, ha catturato l’obiettivo del buon Clint.
In questo, e nella prospettiva in certo modo cristologica che contraddistingue lo spiazzante epilogo, anch’io sento una prepotente influenza evangelica.
Peraltro, nella stessa prospettiva, pur nella radicale eterogeneità dei percorsi, le sensazioni che provocano le scene finali del film mi hanno richiamato quelle che ho sentito leggendo le ultime pagine della Strada (The Road) di Cormack McCarthy. In entrambe, gli Autori sembrano ricordare che l’amore estremo (simboleggiato da quello di una figura paterna), sino alla donazione definitiva di sé, costituisce l’unica ancora di salvezza di questo mondo malandato.
Tra le righe mi pare di evincere ciò:
prima infatti pensavo che alla fine tutto portasse all’annullamento di se’… non penso proprio al suicidio… ma, a qualche cosa del genere. Ora invece con:
“sino alla donazione definitiva di se'”
mi sembra ci sia come una speranza di cambiamento