Magic and loss: la morte nel rock
E chi l’ha detto che il rock’n roll sia solo scarpe da ballo, ancheggiamenti, divertimento e luccichii? La musica americana – o almeno quella sua parte che è riuscita a sfuggire alle grinfie dell’industria discografica – ha saputo guardare in faccia l’orrore. Non ha cantato solo i furori giovanili ma anche il declino, la vecchiaia, il dolore, la morte. C’è chi si è fermato all’oltraggio del tempo. Chi ha percorso altre vie. Chi si è negato alla speranza. Chi ha trasfigurato l’orrore. Chi si è arreso al buio. Chi si è mosso cercando una luce. Da qualche parte.
Magic and loss
C’è un album di Lou Reed che è interamente attraversato dalla morte. La perdita (loss) vi fa capolinea nella forma del rimpianto, nell’invocazione frustrata della magia (magic) e del miracolo, nel riconoscimento del disfacimento. “La vita è buona” – canta il vecchio Lou, uno che ha confidenza con i lati selvaggi dell’esistenza – ma non pensiate che “sia giusta”. Il brano Magician è un sofferto lacerante faccia a faccia con la morte. Il protagonista del brano è aggredito dalla malattia. Oltraggiato dal male. “Sono così stanco di guardarmi/ odio questi corpo dolorante/che il male ha lentamente consumato”. Dinanzi alla presa della morte non resta che l’invocazione di un qualcosa che sia totalmente “altro”:
“Voglio della magia per restare vivo/ voglio un miracolo non voglio morire/ho paura di andare a dormire/ di non svegliarmi più/ di non esistere più/ di chiudere gli occhi/ e sparire/ e fluttuare nella nebbia”.
E in Cremation Ashes to ashes il mare “nero carbone”, perennemente percorso dai venti, mosso dagli uragani, diventa figura della morte, della morte in attesa. Eppure alla morte non viene lasciato il sigillo definitivo sulla vita dell’uomo. La vita si intreccia alla perdita, quella che Lou Reed chiama magia riesce ancora a riscattarla, in un gioco eterno di “magia e perdita”. L’esperienza indicibile della morte viene resa con l’incalzare di immagini che richiamano il fuoco e la luce: “attraversa il fuoco verso la luce/ attraversa il fuoco verso la luce// devi essere forte/perchè comincerai da zero/ ancora e ancora/ e mentre il fumo si dirada/ c’è un fuoco che tutto divora/e si stenderà di fronte a te”.
E di fiery light, di una luce accecante, canta anche Bruce Springsteen in un altro LP nel quale la presenza della morte a tratti diventa ossessiva. Parliamo diThe Rising, composto dopo la catastrofe delle Torri gemelle. E’ il fuoco – la luce – la figura che racchiude l’intero album. C’è il fuoco divorante di Into the fire, il fuoco che si trafigura in luce accecante in The rising, brano tutto giocato sulla vertiginosa alternanza tra tenebra e luce, vista e cecità, morte e salvezza. Una casa in fiamme appare in Lomesone day, Mary’s place è disseminata di candele. La resurrezione alla quale allude il brano che dà il titolo all’album appare anche in Further up (of the road) nella quale è la morte stessa – simboleggiata dall’anello con il teschio e gli stivali da cimitero e il vestito da morto indossati dal protagonista del brano – a essere superata nella “luce più in là”.
“Una mattina di sole/ risorgeremo di nuovo/ e ti inconterò più avanti/ sulla strada”.
The evening train
Lo scivolamento nella vecchiaia è reso con acida lucidità da Bob Dylan. I tempi stanno cambiando, cantava il “profeta” Dylan in un diluvio di immgini di catastrofe e redenzione, rovina e rinascita. Ebbene ora che i tempi sono cambiati è l’indifferenza ad accoglierli. Things have changed: “Un uomo in pensiero con la testa piena di pensieri/ nessuno mi sta davanti e nessuno mi sta dietro/ una donna seduta sulle mie ginocchia beve champagne/ ha pelle bianca e occhi da assassino/ io alzo gli occhi a un cielo colore di zaffiro/ ben vestito come sono/ aspetto l’ultimo treno// sto qui sulla forca con la testa nel nodo/ da un momento all’altro mi aspetto che l’inferno si scateni// la gente è pazza e i tempi sono strani/ mi sento messo in gabbia/ mi sento fuori gara/ una volta m’importava/ ma le cose sono cambiate” (traduzione di Alessandro Carrera). E in Not dark yet, Dylan rincara la dose: “le ombre stanno calando e sono stato qui tutto il giorno/ fa troppo caldo per dormire e il tempo corre via/ mi sento come se la mia anima fosse diventata d’acciao/ ho ancora delle cicatrici che il sole non ha guarito/ non c’è neanche abbastanza spazio per essere da qualche parte/ non è ancora buio ma lo sarà presto” (traduzione di Leonardo Mazzei).
Johnny Cash ha conosciuto una vera propria rinascita artistica negli ultimi anni della sua vita, inanellando – con gli American recordings – una serie di registrazioni destinate a rimanere per sempre nella canzone americana. Il produttore-mago Rick Rubin scarnifica i brani, riduce gli arrangiamenti al minimo, libera la voce di Cash da inutili orpelli. La parola d’ordine è semplicità. E rigore. C’è la verità – sangue ossa morte fede paura angoscia ancora fede – da cantare. In questo pugno di canzoni, molte tirate fuori dai repertori più disparati, c’è l’orlo che tiene assieme la morte e la speranza, l’oltraggio della vecchiaia e il ricordo del passato, la bestemmia e la preghiera, l’omicidio e la resurrezione, la disperazione e la fede. In tutte c’è il marchio dell’impossibilità di redimere il tempo. “Non avrei mai pensato di aver bisogno di aiuto/ pensavo ce l’avrei fatta da solo/ ma ora so che non è vero// Con il cuore tremante/le ginocchia piegate/ ti prego Signore ascoltami” (Help me). “Prego Dio mi dia coraggio/ di andare avanti finché non ci rincontreremo di nuovo/ è dura rendersi conto che lei è scomparsa per sempre/ che sta tornando a casa sul treno della sera” (The evening train).
E poi c’è Hurt, cover dei Nine Inch Nails, che la voce affannata di Cash rende di una bellezza dolorosa: “Mi sono ferito oggi/ per vedere se sono ancora in grando di sentire qualcosa/ mi concentro sul dolore/ la sola cosa reale”. Nel video che accompagna il brano c’è tutto il senso della “scandalosa” vecchiaia di Cash: un’ostensione del disfacimento, dell’oltraggio del tempo resa più violenta dalle immagini – sapientemente ritmate nel video – della sua giovinezza: Cash che guida un treno, Cash con chitarra a tracolla, Cash nel pieno del vigore fisico. Il culmine del pathos è raggiunto mentre la voce intona le ultime strofe del brano: “Sotto le macchie del tempo/ i sentimenti scompaiono”. Il crescendo musicale è accompagnato da una più rapida successione delle immagini: Cristo, la corona di spine, il chiodo che si conficca, Cash ripreso davanti a un banchetto (figura dell’ultima cena?), Cash che sparge un bicchiere di vino (figura del sangue di Cristo?). Il video si chiude con una gesto che ha il sapore definitivo di un congedo: l’artista chiude il pianoforte su cui ha battuto il dito ossessivamente.
The longest day
Se gli Who cantavano di volersene andare prima di diventare vecchi, se la vecchiaia era qualcosa da sbeffeggiare o ignorare (“per sempre giovani” cantava Dylan), John Mellecamp non è arretrato di fronte a questa diminuzione: “continui a comportanti allo stesso modo/ ma nel profondo sai che il fuoco è spento”. La vecchiaia è la morte in azione: “Non vedo più come una volta/ non corro più come il vento/ non dormo che poche ore a notte”. La morte che prima era lontana, irrilevante, arriva a occupare spazi sempre più ampi: “I miei amici sono tutti ridotti male/ o sono morti/ e io sono completamente solo/ tutto ciò che mi rimane è una testa piena di ricordi/ e il pensiero della morte che si avvicina”.
Ma racchiusa nell’idea della vecchiaia – e della morte – se ne nasconde un’altra, come un nocciolo incandescente: è il ritorno a casa. Mellecamp si affida a qualcuno perché lo guidi: “Gesù puoi darmi un passaggio fino a casa?”. E Neil Diamond nel brano Home before dark:
“A casa prima dell’oscurità/ prima che la notte scenda/ e il sole scompaia/ posso sentire la tua voce/ ho seguito la mia stella/ ma non posso più corre veloce nel buio” .
Ma tornano a casa, lungo percorsi più o meno tortuosi, alla fine della corsa o nel bel mezzo della vita, disullusi o pieni di gioia, Tom Waits (Long way home), Southiside Johnny (All the way home), Bruce Springsteen (Long walk home), Merle Haggard (Sing me back home), Bob Seeger (The long way home), John Denver (Back home again), James Taylor (Home by another way), Johnny Cash (I want to go home), Stevie Ray Vaughan (Long way from home).
Warren Zevon ha inciso il brano Keep me in yuor heart quando già la malattia lo aveva aggredito e stava per vincere la sua battaglia:
“Le ombre calano/sto correndo a perdifiato / tienimi nel tuo cuore per un po’// Conservami nei tuoi pensieri/ tienimi nei tuoi sogni/ toccami mentre scompaio nel vuoto/ quando arriva l’inverno tieni accesa la fiamma/ e io sarò vicino a te”
Grazie Luca per aver messo in luce un aspetto poco noto della musica rock.
Le canzoni che hai citato dimostrano quanto questo genere, erroneamente considerato da tanti “leggero”, sia capace di dar voce ai sentimenti più profondi.
Grazie davvero!
Splendido pezzo caro Luca, complimenti. Però…proprio ieri ho comprato l’ultimo degli American Recordings (il vol.V) di Cash che tu hai splendidamente presentato con parole che sottoscrivo pienamente. Beh, questo volume sembra essere il riscatto dopo la caduta, la ribellione di fronte alla morte che sembra (ma non è?) ineluttabile, già dal titolo “Ain’t no grave” (che poi è la track n.1), per non dire della biblica “1 Cor 15,55” che ripete i versi paolini: “morte, dov’è il tuo pungiglione?”. La parabola di Cash, la sua parte finale, è meravigliosa, struggente, toccante… forse dovremmo ripartire da lì (ma anche dal vitalissimo – quasi allegro – Together through life ultimo cd di Dylan) per approfondire e andare oltre la tua lucida riflessione. ciao
andrea
Ho letto il post di Luca dopo aver ascoltato (come Andrea) l’inedito di Johnny Cash. La commozione provata ascoltando la voce stanca di un Cash ormai morente, ha reso particolare la lettura di “Magic and Loss”. Possiedo il vinile di Lou Reed e ricordo ancora lo smarrimento nel leggere i testi dell’album, comprato dopo aver ascoltato “What’s Good” nella stupenda colonna sonora del film di Wim Wenders “Fino alla fine del mondo”. Un argomento scomodo, specie nella nostra cultura dove il problema della morte è stata esorcizzato, messo da parte. Il cantautore Roberto Vecchioni parlò in maniera delicata e struggente della morte da suicidio provocata dalla depressione, il male invisibile che colpì uno dei suoi migliori amici, Tommy, come il titolo della canzone: “Fa che sia una notte breve/ Fa che l’inverno gli sia lieve/ E quando poi sarà il momento/ Digli che io c’ero e non ho fatto in tempo/ Dagli un attimo di madre/ Contro i tuoi regolamenti/ Fallo, tanto chi ti vede/ Toglilo dai miei che ne ho già avuti tanti”. Come tante le canzoni di rinascita. Ma ogni risurrezione esigerà sempre una passione e una morte. Peccato che il rock – spesso – non vada oltre un laicissimo venerdì santo.
bel post – mi permetto di aggiungere anche FLIRTED WITH YOU ALL MY LIFE che Vic Chesnutt ha interpretato dal vivo (sic) fino a un mese prima di morire – sembra una canzone d’amore all’inizio e vale la pena sentirla per quello che Vic riesce a fare con la pronuncia (ce ne sono diverse versioni su youtube, consiglio questa: http://www.youtube.com/watch?v=V4Z-kjr4BLs) – ecco il testo:
I am a man, I am self aware
And everywhere I go
You’re always right there with me
I flirted with you all my life
Even kissed you once or twice
And to this day I swear it was nice but clearly
I was not ready
When you touched a friend of mine
I thought I would lose my mind
But I found out with time that
Really, I was not ready
no no
Cold death, oh death, oh death
Really, I’m not ready
Oh death you enter me
Death’s unmade those dear to me
And tease me with your sweet relief
You’re cruel and you are constant
When my mom was cancer sick
She fought, but then succumbed to it
But you made her beg for it:
“Lord Jesus, please I’m ready”
Oh death, oh death, oh death
Really, I’m not ready
no no
Oh death, oh death, oh death
Clearly, I’m not ready
no no