Un poeta sulle orme di Teilhard de Chardin?
Strano personaggio, Claudio Damiani. Nonostante sia tra i maggiori poeti italiani viventi, si guarda bene dal darlo a vedere. Qualche anno fa, mentre era impegnato nella ristrutturazione della casa e si vide soffiare per un solo punto il premio Viareggio-Répaci, si limitò a commentare: «Peccato, perché ci avrei pagato le finestre, e la scala». Come non desse peso ai riconoscimenti ufficiali. Eppure, alla presentazione romana della sua prima raccolta antologica (Poesie 1984-2010, Fazi, pp. 168, € 15), il cinema Nuovo Sacher straripava, neanche a calcare il palco ci fosse il più smaliziato mattatore.
Damiani non lo è di certo. Insegna latino al liceo. È un po’ come la sua poesia: semplice, cordiale, di un’eleganza senza calcolo. I suoi versi sembrano parlare soltanto di un lago, di una montagna o dei suoi cari… eppure, non si sa bene come, ci trovi dentro l’universo intero. Sfogliando questa raccolta si incontrano i temi a lui cari: il piacere di passeggiare, il dialogo della natura con l’uomo, gli affetti domestici, la scuola, il dialogo con il passato, l’osservazione del presente. Talvolta l’acuto sentimento del tempo sembra sfumare le tinte in una tenue malinconia: le case in rovina, il ricordo degli avi, i luoghi dell’infanzia, il timore di perdere la donna amata, il pensiero della morte, la memoria di civiltà sepolte. Sulla rovina e la corruzione, tuttavia, prevale sempre la placida e ferma fiducia in un’inesplicabile durata.
Anche se tutto è negletto,
anche se tutto è impolverato
e giace inerte, nell’oblio,
anche se è così, a me non importa niente.
Io mi siedo su questa sedia impolverata
che potrebbe frantumarsi sotto il mio peso,
parlo con delle persone che nessuno vede,
e potrebbero ridere vedendomi.
Che gli altri ridano non m’importa niente,
che mi ignorino, anche di questo non mi importa.
Questi muri che tocco, vedi, si sgretolano,
questa bottiglia d’acqua s’incrina appena,
questo pane sulla tavola non diventa polvere,
queste posate e questi piatti, ordinati, composti,
in relazione l’uno con l’altro, e noi tutti intorno
che facciamo il segno della croce e ringraziamo il Signore
prima di mangiare.
L’autentico mistero non è che tutto vada in polvere, quanto che qualcosa si salvi. Che sia possibile scampare dalla dissoluzione cosmica. Perché la fine c’è, ed è drammaticamente reale: «Nasciamo angeli e interamente amiamo, / con tutto il cuore del nostro amore ci innamoriamo / come dei bambini che non conoscono il mondo / e interamente moriamo». Eppure qualcosa sopravvive. C’è un «paradiso / che noi abbiamo trovato, che era per strada / sotto gli occhi di tutti» e che perfino «sotto terra continuerà a brillare». Di cosa si tratta? Per rispondersi Damiani ha dialogato a lungo con i classici latini e cinesi, generosi custodi di una sapienza perenne. Ciò che resta non è l’arte, non è l’eroismo guerresco, non sono i monumenti. Scrive il poeta persiano Sa’di nel suo Golestan: «Ciò che non dura non è degno dell’amore». Qual è allora il mistero custodito nella durata? Se il tempo brucia ogni cosa, perché nelle sue ceneri continuano a palpitare braci d’amore?
«Che cos’è questa vita?
Non lo sappiamo, ma camminiamo uniti,
teniamo puliti i sentieri
con genitori e figli,
con la terra, con la natura e il cosmo.
In ogni essere, anche inanimato, è il peso
dell’esistere e del suo mistero,
egli lo porta tutto sulle sue spalle
come un eroe, come una formica un peso più grande di lei,
e cammina nella neve, affondando nella tempesta,
avanza lentamente arrancando,
ma cammina e non si scoraggia,
il vento gelido gli soffia sulla faccia,
ma lui avanza,
gli viene il dubbio, ma lui avanza,
c’è una forza che lo sostiene,
gli fa trovare la strada dove tutto è bianco,
dove sepolta è ogni strada.
Sì, c’è una forza che si fa strada»,
dice Li Po, mentre si siede
su un vecchio tronco tagliato
nella tempesta che sopravanza,
che, per un po’, si placa.
Dice Li Po ad alta voce,
e non c’è nessuno a ascoltarlo.
C’è dunque una «forza che si fa strada» attraverso l’esistente e soprassiede alla vita buona. C’è un ordine reale quanto misterioso che opera all’interno delle cose. La terra stessa si muove «come un bimbo / nella pancia della mamma», custodita da una presenza che non vediamo e pure percepiamo. Ciò che sopravvive è quest’ordine sapiente e bello, dinamico, solenne come un fiore grande quanto il cielo che impiega un miliardo di anni per sbocciare. È quest’ordine a sopravvivere al disfacimento, a giungere fino a noi e attraverso di noi a continuare il suo tragitto verso un punto di fuga ignoto. Omnia mutantur, nihil interit – scrive Ovidio nelle Metamorfosi: «Tutto muta, niente si perde». Un continuo movimento generativo, espansivo, accogliente.
Tutto questo non avviene nella testa dell’autore, come una bonaria teoria. Non c’è nulla di soggettivistico nella poesia di Damiani, al contrario, dal fuoco domestico si trapassa a una dimensione civile fatta di «molta socialità / feste, canti e riti». Il richiamo alle “buone maniere” – la sobrietà, la naturalezza, il rispetto per i defunti, il creato e perfino gli oggetti – assume qui uno spessore non soltanto politico, ma metafisico. «Cercare di essere compiutamente umani – dice Confucio, autore molto amato dal poeta – non lascia spazio al male». Altro che bon ton. Significa ricercare e aderire a quell’ordine misterioso che innerva il tessuto del mondo, contribuire a dargli più spessore, a renderlo più durevole e più resistente ai morsi della solitudine del disfacimento.
Tutta la poetica di Damiani è declinata nel segno dell’insieme, della comunione e di un’inclusività cosmica capace di comprende passato presente e futuro, umanità e animali, natura e cultura, organico e inorganico, vivi e morti. Tutto ci pare immobile, se osserviamo l’esistenza appiattiti sull’istante presente; ma se cominciamo a sfogliare il romanzo delle ére e degli eoni, tutto si anima rapidamente. Si percepiscono i sommovimenti di un gigante. È come risvegliarsi di colpo con la serena certezza che tutto si muove verso – o è attratto da – un Traguardo Totale, da un fine ultimo:
giungere alla vita per riportare l’ordine
o qualcosa che è stato perduto, riconquistarlo,
una missione che ci sfugge, eppure lo sentiamo
sentiamo che andiamo, anche nelle continue cadute,
verso un bene lontano sempre più vicino.
Una visione che appare molto simile a quella di un paleontologo che lavorò per oltre vent’anni sul suolo cinese: il teologo gesuita Pierre Teilhard de Chardin. È proprio lo scavo nel passato – alla ricerca di ciò che permane, di ciò che ha sostanziato la durata – a suscitare così visceralmente l’interrogativo sul futuro estremo, sul fine ultimo di tutto. Scrutando i segreti della polvere, Teilhard come Damiani sono stati catapultati nei silenzi delle stelle. Sì, neppure la morte – pur così presente nei suoi versi – può incrinare il mistero dell’esistenza, perché essa stessa ne è parte. La Morte autentica – l’eterna chiusura dell’individuo in se stesso – è continuamente trapassata e vinta dal pensiero che tutti siamo destinati ad affrontarla, che tutti l’affronteremo insieme, «come tenendoci per mano, cantando, / con i capelli profumati, col campo cinto di fiori». Come alberi abbattuti, pacificati dall’aver nutrito gli uccelli che porteranno i loro semi in terre nuove.
Se siamo così tanti
vuol dire che non c’è morte
perché non possiamo morire così in tanti,
se le galassie sono così tante
se tra viventi e non viventi non c’è poi tanta
differenza, e se dovunque è il vivente
come dovunque è l’idrogeno
e se la plastica che abbiamo inventato
in qualche modo è in natura,
se ciò che facciamo non è artificiale
ma imitazione della natura,
natura stessa perché noi siamo natura,
parte di lei, messi da lei
a creare esseri artificiali
sotto il suo comando,
allora la morte ha poco da dire
e insieme tantissimo, è qualcosa che ci appartiene
e non ci è estranea
qualcosa che ci accomuna, e ci riunisce,
qualcosa di bello, che adesso ci fa paura
ma quando arriverà sarà un’esperienza grande
più grande della nascita, più grande dell’amore
e saremo contenti di poterla vivere insieme.
(questo articolo è comparso su ZENIT 12/10/2010)
Grande Paolo, questo tua presentazione di Damiani è splendida, apre nuove strade e inedite prospettive (tra Confucio e Teilhard e soprattutto voglio sapere tutto del Golestan). Sublimi gli ultimi versi citati: “allora la morte ha poco da dire
e insieme tantissimo, è qualcosa che ci appartiene
e non ci è estranea
qualcosa che ci accomuna, e ci riunisce,
qualcosa di bello, che adesso ci fa paura
ma quando arriverà sarà un’esperienza grande
più grande della nascita, più grande dell’amore
e saremo contenti di poterla vivere insieme”.
Dei “Detti di Confucio” c’è una bellissima edizione curata da Simone Leys che stabilisce paralleli con Carver, Waught, Pascal, Lewis, Johnson, Forster e altri. Alla fine i problemi dell’uomo son sempre quelli, in ogni epoca e a ogni latitudine…
Per i sufi sarebbe consigliabile la Octagon press, o le traduzioni che si rifanno a queste di Idris Shah. ch