Letture. La legge dell’odio.
1969 e dintorni. L’altro sguardo.
In un saggio di qualche anno fa (fine 2006, precisamente), Una tragedia negata, uscito in prima edizione anche presso Vibrisse,libri, e dunque ancora liberamente prelevabile in rete, Demetrio Paolin analizzava la produzione narrativa italiana derivante dalla lacerante esperienza collettiva dei cosiddetti “anni di piombo” . Lo studio è ancora pienamente attuale, e merita una rilettura. In estrema sintesi, Paolin, con ricca documentazione a sostegno, individua, quali tratti comuni ai romanzi esaminati, l’assenza della figura del nemico e la conseguente attenuazione della cifra tragica degli eventi narrati. Sotto un profilo diverso e non strettamente letterario, colpisce nelle opere catalogate un certo unanimismo, una quasi assoluta unilateralità di vedute circa l’analisi della società che è sottintesa alle scelte e alle azioni dei protagonisti.
La prospettiva messa in luce cinque anni fa da Paolin è adesso rovesciata dall’ultimo romanzo di Alberto Garlini, La legge dell’odio (Einaudi, 2012), in cui, invece, è ben presente sia la consapevolezza dell’esistenza del nemico come essere di carne e di sangue, percepito quindi anche nella sua disarmata essenza di vittima, sia la tensione alla sublimazione in tragedia delle vicende narrate. E’ poi nell’universo della destra estrema degli anni a cavallo tra i Sessanta e i Settanta del secolo scorso che Garlini affonda il suo scandaglio (elemento anche questo di originalità, anche se non di assoluta novità), e lo fa senza pietà, infingimenti o velature retoriche. Di esso ci sono restituiti i deliri ideologici, l’osceno disprezzo per le masse in nome di presunte quanto inesistenti superiorità “spirituali”, originato direttamente dal più cupo armamentario concettuale del nazismo, l’ossessivo richiamo per la fine di tutto in una catartica tragedia purificatrice, o almeno in un’individuale ma eroica “bella morte”, sia pure coesistente con una nutrita produzione di progetti rivoluzionari tesi al rovesciamento dell’assetto sociale esistente.
Una discesa nell’abisso.
L’azione si snoda su due piani paralleli, in un’alternanza di capitoli che squaderna diversità di punti di vista, pur in un quadro d’intima e tragica coerenza.
Nella prima sequenza narrativa si dà conto della deposizione resa al proprio processo nel 1985 da Franco Revel, ideologo dell’eversione nera e dirigente del gruppo estremistico “Lotta Nazionale”. Revel mischia verità a menzogne, non c’è compassione nelle sue rievocazioni di morte, solo algide valutazioni tecniche circa la necessità politica dei delitti raccontati, il tono è scostante ed esprime adeguatamente l’irriducibile diversità tra la sua concezione del mondo e quella rappresentata dal suo giudice ed appartenente, sia pure con differenze non insensibili, al comune sentire del resto della collettività.
L’altro piano del racconto, di gran lunga quantitativamente prevalente, abbraccia un arco temporale più ampio: è la cupa rievocazione, nel racconto del terrorista nero, della rapida vicenda umana e politica (o non piuttosto della vertiginosa discesa nell’abisso) di Stefano Guerra, giovane attivista dell’estrema destra friulana, che percorre come un fulmine il breve periodo 1968 – 1971.
Il 1° marzo 1968, durante gli incidenti di Valle Giulia, inizia la militanza politica di Stefano, nelle fila dell’estrema destra. Quel giorno, nulla è ancora definito, tutto può ancora accadere, anche che le due estreme si coalizzino nello scontro con la polizia. Istanze rivoluzionarie geneticamente antagoniste trovano già qui indicibili e mai confessati punti di contatto che potranno germinare meglio anche in seguito, tra infiltrazioni, tradimenti, equivoci ed ambiguità ideologiche prima ancora che personali: la comune consapevolezza che la società costituita sia all’estremo, l’odio per la borghesia, ed i valori che esprime, perfino la contrarietà per la collocazione internazionale del paese e le conseguenti scelte di politica estera, la convinzione infine della necessità di un’azione rivoluzionaria, al cui esito si è convinti di dover sacrificare tutto, anche le regole morali più radicate nello spirito di ognuno. Stefano si mette in luce agli occhi di Revel, che lo vuole di nuovo a fianco nella successiva occupazione dell’Università, nella quale l’occasionale contiguità con le frange dell’estremismo rosso si spezza (ma non le ambigue frequentazioni tra membri degli opposti schieramenti, che torneranno utili in altra e più luttuosa occasione). Lì, per Stefano giunge il battesimo di sangue, nella forma dell’omicidio quasi casuale di Mauro, mite studente della parte opposta, figlio di un intellettuale di spicco ed organico alla sinistra e fratello di Antonella, la ragazza di cui poco dopo s’innamorerà.
Da quel momento, in un andirivieni tra Roma e Udine, sua città d’origine, la sua educazione alla violenza procede senza intoppi: ad essa pare comunque ben predisposto fin dall’infanzia, per lui un pozzo oscuro, nel cui buio si annida un segreto drammatico. Ad Udine capeggia un gruppetto di estremisti, in virtù di una serie d’imprese (agguati, pestaggi, intimidazioni, commerci d’armi e di esplosivi…) che lo rendono via via più ammirevole agli occhi dei compagni. Inizia anche una difficile navigazione all’interno dell’Arcipelago, la galassia di gruppuscoli di destra, dai contorni indefiniti, che si ramifica in ambienti eversivi, dal carattere molto localistico, a volte quasi del tutto privi di contatti reciproci. La sua mappatura completa è sconosciuta anche a molti affiliati di alto rango, forse neanche Revel sa tutto, anche se fa mostra di essere a conoscenza delle notizie più riservate. Contemporaneamente, cominciano a palesarsi relazioni e connivenze inquietanti con esponenti dello stato, lo stesso comandante dei carabinieri della città ha comportamenti inspiegabilmente omissivi, e lascia trapelare contiguità ideologiche quanto meno inquietanti. Altri ambigui personaggi intersecano il suo percorso dentro l’Arcipelago: di essi restano costantemente oscure finalità ed appartenenze. Escrescenze tumorali del sistema dei servizi, in qualche caso, ed in altri infiltrati da uno schieramento all’altro, più di quanto non sembri intimamente uniti dal comune odio verso lo stato borghesemente costituito.
Iniziano i primi attentati, con scopo dichiaratamente dimostrativo. Inizia soprattutto la preparazione ad un’azione che si presume decisiva, e segni l’inizio dell’azione rivoluzionaria vera e propria, con conseguente immancabile abbattimento dello Stato borghese. A Milano, presso la Banca nazionale dei Coltivatori, in piazza del Monumento, si consuma l’attentato più grave del dopoguerra: una quindicina di vittime, la scomposta devastazione dei loro corpi è segno tangibile dell’inumanità di chi ha voluto tanto, e rende oscuramente consapevole della propria uscita dal consorzio umano anche chi, come Stefano, all’attentato ha partecipato senza piena consapevolezza dell’intero piano che ad esso presiedeva. E’ in quei giorni che nel paese comincia a sfilacciarsi il senso stesso del vivere collettivo. Stefano, invece, si avvia verso una lenta e rabbiosa discesa nei labirinti del sospetto, doppiamente amara per il progressivo abbandono di alcuni che credeva amici, fino a provare il gelo di un minaccioso isolamento. Un viaggio in Afghanistan (digressione certo incongrua rispetto alla coerenza della narrazione) con Antonella lo allontana per un po’ da un fronte troppo pericoloso, ma al ritorno si ritrova in una situazione di stallo non solo sul fronte dell’attività politica, ma anche su quello esistenziale. L’attentato non ha dato i risultati sperati: l’assetto democratico del paese, ancorché scosso, non tracolla e l’auspicata svolta in senso autoritario non avviene. Revel gli è sempre meno amico, e con alcuni degli altri vecchi amici i conti si regolano nel modo tipico del loro ambiente, minacce, violenze, ricatti, pestaggi. Costatato il fallimento, le vendette trasversali che si consumano all’interno del movimento non risparmiano nulla, nemmeno la storia d’amore tra Stefano e Antonella. Il ragazzo reagisce al dolore accecante nel modo che meglio conosce: ma la sua vendetta coglierà il bersaglio sbagliato, e avrà la forma di una strage di carabinieri attirati in un agguato ed uccisi nell’esplosione di un’auto al tritolo. Ormai completamente solo, Stefano ripara nell’estremo Sud dell’America, che sarà il fondale del suo lungo e malinconico crepuscolo, braccato implacabilmente dai camerati di un tempo ed accompagnato da un’altra misericordiosa figura femminile, Cesarea, la poetessa argentina che gli resterà accanto fino all’ultimo.
Eccesso ed eccessi.
La vicenda di Stefano è tutta giocata nel segno dell’eccesso: eccesso di sensazioni, di emotività accompagnata da una sorprendente incapacità di tenerla a freno, in una sorta di morbosa prolungata adolescenza dell’animo. Le relazioni che intreccia sono apparentemente profonde, perché impiantate su simulacri di valori alti, ma a meglio vedere instabili, governate da una capacità sconcertante di trascorrere subitaneamente da un sentimento all’altro, forse perché dominate da un generale fondo di disprezzo per l’altro, che infetta anche i rapporti con le persone più vicine o più meritevoli di affetto. Lo stesso rapporto con Antonella non salva, né tanto meno redime, non riuscendo a ricondurre i brandelli di una vita disperata ad esiti di almeno precaria normalità (quella normalità così aborrita da lui e dai suoi amici, perché intesa quale espressione di debolezza): svela pertanto una sua definitiva inutilità.
Ed è ancora la coscienza del superamento del limite, del punto di non ritorno, ad ottundere il disgusto di Stefano per la strage compiuta, sia pure non del tutto volontariamente. La percezione della sconfinatezza del male a cui ha partecipato vanifica prospettive di pentimento autentico. Stefano nei giorni che seguono l’attentato ha momenti di abulia e di scoramento: non ne deriva tuttavia alcuna tentazione di riscatto. Non c’è possibilità di redenzione, nel pianeta abitato da Guerra e dai suoi amici, in cui ognuno pare crocefisso al proprio destino, incapace di fare alcunché per cambiarlo.
Di Garlini si conosceva la scrittura sobriamente intenerita di Una timida santità, e la più forte miscela di fatti e sentimenti di Futbol bailado. Inventa adesso un linguaggio ruvido e slabbrato, pienamente idoneo a rappresentare emozioni rapaci e malate, ambienti moralmente marcescenti e rapporti incancreniti nell’astio e nella diffidenza. Le oltranze stilistiche rispecchiano il tempo e i caratteri del lungo racconto, ed anche quelle estreme, in altra situazione narrativa forse discutibili, qui si conformano ad un consapevole intento d’identificazione.
Storia e racconto.
Attraverso la vicenda di Stefano Guerra, Garlini ambisce ad evocare un mondo (ne è testimonianza anche la mole stessa del libro), con l’intento di esprimerne non soltanto le vicende che l’hanno caratterizzato, ma anche e soprattutto la temperie morale e spirituale che ne ha improntati azioni, pensieri, progetti e misfatti. Quanto al primo versante, le allusioni a fatti e persone che hanno attraversato le cronache del tempo sono trasparenti: dalle stragi di Piazza Fontana e di Peteano (anticipata rispetto all’effettività storica), a una galleria di personaggi. Oltre a quelli presenti con il loro nome (Almirante, Rumor), sono, infatti, approssimativamente riconoscibili almeno Delle Chiaie, Feltrinelli, Freda e Ventura. La riproduzione storica generale dell’epoca appare molto accurata, e, ciò che più conta in un’opera letteraria, verosimile e coerente. Ne deriva un risultato narrativo convincente, che contempera una ragguardevole capacità di rendicontare del nostro passato recente con l’autonomia dai vincoli delle scienze storiche, libertà che è in fondo il privilegio del narratore.
Ma Garlini si spinge oltre, fino ad utilizzare a fini narrativi una delle più recenti ricostruzioni (peraltro non certo unanimemente condivisa) della strage di Piazza Fontana, contenuta nel saggio Il segreto di Piazza Fontana (Ponte alle Grazie, nuova edizione aggiornata 2012; l’edizione originale è del 2009) di Paolo Cucchiarelli. Secondo questa versione, alla Banca Nazionale dell’Agricoltura (alias Banca nazionale dei Coltivatori) quel 12 dicembre ad esplodere furono due bombe. La prima sarebbe stata piazzata da un anarchico, la cui descrizione romanzesca adombra quella di Valpreda (esplicitamente indicato invece nel saggio), appartenente ad un gruppo pesantemente infiltrato da neo fascisti e servizi segreti. La sua valigia avrebbe dovuto contenere esplosivo a basso potenziale e regolato in modo da esplodere oltre l’orario di chiusura: un attentato dimostrativo, dunque, che a stretto rigore non escluderebbe del tutto una responsabilità per lo meno indiretta del campo anarchico. La seconda, invece, sarebbe stata piazzata del tutto consapevolmente da un neofascista a poca distanza dalla prima, in maniera da anticiparne la detonazione e moltiplicarne gli esiti distruttivi.
A questa seconda azione è deputato, nella finzione romanzesca, il gruppo nel quale agisce Stefano, che, però, anche lui non ha piena conoscenza dell’intero piano, giacché ritiene che anche il suo ordigno sia programmato per esplodere nella notte. (Per inciso: la teoria del doppio attentato, parzialmente accolta anche nel recentissimo film Romanzo di una strage, sta suscitando roventi polemiche, che la rete puntualmente accoglie ed amplifica – si vedano, tra gli altri, 43 anni di Sofri e Le falsità di Adriano Sofri su “Il segreto di Piazza Fontana”, di Paolo Cucchiarelli – esulanti dal campo dell’analisi letteraria in senso stretto, ma che meriterebbero un approfondimento a se stante).
L’adesione alla realtà storica di quegli anni non esaurisce però il senso della narrazione, né può tantomeno considerarsi metro per una complessiva valutazione dell’opera. La legge dell’odio è, anzi, uno splendido pretesto per riaffermare come la narrativa si offra anche come strumento per la conoscenza (e non solo di rappresentazione) del reale (di un mondo di un’epoca di un ambiente, del lacerto di un periodo storico, come in questo caso); non nel senso del reale storico, scientificamente acclarato con gli strumenti a disposizione delle scienze storiche, non è questo il suo compito, ma in quello più proprio e peculiare (ed altrettanto degno) del clima, dei sentimenti, dell’atmosfera lato sensu culturale che hanno preceduto prima ed abitato poi il periodo. In ciò sta l’”utilità” di questo testo: nel registrare lo spirito di anni che tutti noi, direttamente o come lascito della memoria collettiva, abbiamo attraversato (sia pure un tempo parziale, scarsamente condiviso, per fortuna, dalla collettività del paese).
Occidente sfigurato e soldati politici.
Più che dire una parola definitiva sugli anni ’70, come recita la quarta di copertina, il romanzo di Garlini disegna un’antropologia del cuore nero di quegli anni. Nulla è risparmiato: le esaltazioni smisurate e l’ordinarietà di vite banali, e soprattutto giovinezze devastate tra alcol, sesso e pestaggi, dissipate nell’inseguimento del mito della violenza purificatrice. Vi pulsano “la rabbia, l’ebbrezza quasi erotica della distruzione, la fascinazione per le armi e la morte.” (Benedetta Tobagi, la Repubblica, 24/01/2012). Nei confronti di tutto questo degrado, Garlini persegue senza alcun tentennamento il fine di smascherare anche l’estrema menzogna, ribadendo che non c’è alcuna grandiosità nel male, e negando così l’estrema difesa di chi tale male produce in gran copia: la sua ineludibile necessità, la tragedia che più dolore produce, più rigenererà le coscienze, e così via farneticando.
Stefano Guerra si definisce “soldato politico”. In questo dettaglio è rintracciabile un primo indizio dell’inversione dei valori etici che la cultura cui appartiene impone. Soldato politico, che nelle intenzioni di Guerra e dei suoi accoliti è titolo di merito, rimandando l’idea di coraggio, di forza, di messa in gioco di tutto il giocabile per affermare un ideale, a ben vedere non riflette che una sorta di contraddizione in termini. L’idea alta di soldato, anzi l’unica possibile, è, al contrario, quella di colui che presiede alla difesa dell’intera collettività che gli è affidata, e che solo per questo porta le armi e gli è conferito il più terribile dei poteri. Ne discende che il vero soldato non può avere appartenenze politiche, non può militare a favore di una parte e contro un’altra, perché il fine per cui agisce le trascende, il che rappresenta, almeno parzialmente, una garanzia nei confronti di eccessi di violenza (sull’etica militare, opposta a quella distorta del soldato politico Guerra, molto può ancora dire l’aureo libretto Vita e disciplina militare – Verona, Il Saggiatore, 1992 – di Luigi Russo). Non è un caso che la maggioranza dei più feroci crimini di guerra dell’ultimo conflitto mondiale sia da ascrivere appunto a corpi di partito, formati appunto da “soldati politici”, che nulla hanno di militare nel senso nobile del termine. Né lo è che a questi corpi, le SS in particolare, Stefano e suoi guardino come a degli esempi da imitare.
Ma La legge dell’odio indaga ad una profondità ben maggiore, nel fitto delle tenebre da cui tutti proveniamo. L’orrore che dimora nei protagonisti del romanzo non nasce certo dal nulla. Così Revel ammaestra l’allievo Stefano:
– Ecco, proprio questo: l’ira! – gli occhi di Franco si illuminano. – La nostra letteratura, la letteratura occidentale, la cultura che ci nutre fin dalle intime fibre, inizia con l’ira di Achille, con la rabbia. La rabbia come pulsione fondamentale, come motore della storia. Tutto parte con la rabbia di Achille, il guerriero la cui fama brucia i secoli, e tutto ritorna alla rabbia…
– Alla rabbia?
– Sì, pensaci. Come finisce il ciclo? Dopo l’Iliade c’è l’Odissea, e alla fine dell’Odissea, dopo i pellegrinaggi per il mar Egeo, c’è Ulisse che ritorna alla sua terra, al sangue del suo sangue, e, sconvolto di rabbia, fa strage dei proci, i pretendenti di Penelope. Cadono uno dopo l’altro. Quanti ne ammazza? Ricordi l’arco, le frecce, i cadaveri e la fame inestinguibile di morte? Cosa prova Ulisse, se non rabbia? Rabbia perfetta, covata per anni, che viene sputata dalle frecce come veleno e come farmaco. Achille e Ulisse, i due eroi europei, due cani rabbiosi.”
Revel individua nel cuore della civiltà classica le radici del suo modo di concepire i rapporti interpersonali e la vita della collettività. E a quanti valori che si sono formati nell’Occidente greco romano e cristiano s’ispira Stefano nel suo vertiginoso rincorrere la propria fine? Le origini del dramma di Stefano e dei suoi camerati affondano certo in un oceano di miseria morale, che pare marcare solamente il loro destino individuale. Eppure, oltre alla desolazione delle loro coscienze, Garlini riesce a farci scorgere la verità più inquietante: anche loro, gli altri, i diversi da noi, fanno riferimento alla stessa tradizione che attraversa da millenni la civiltà occidentale. Scrive al riguardo Villalta (Messaggero Veneto, 24.1.2012): “l’aspirazione a una forma più alta di esistenza, il bisogno di valori più solidi, la fede in una vita d’amore più vera diventino forze che scatenano la violenza e la morte. Non siamo capaci di riconoscere – come si fa? è davvero possibile? – i più alti ideali dell’uomo, così come l’Occidente li ha costruiti, all’origine della via che porta all’orrore.”. Qualcosa dell’Occidente è riferimento anche per i Guerra e i Revel, un Occidente sfigurato, costruito sul sistematico travisamento di alcuni dei suoi valori fondanti, l’onore, la fedeltà, l’amicizia, il coraggio, l’azione come manifestazione di sé, perfino l’aspirazione a forme di meno materialistiche di convivenza. Prospettiva difficile da sopportare, a tutta prima inaccettabile. Eppure, è anche da consapevolezze come queste, rivelate per via romanzesca, ma non per ciò dotate di un minore grado di verità, che si possono formare gli anticorpi idonei ad inibire il riprodursi dell’orrore.
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