Rimbaud, un nuovo Socrate?
Cosa ci faccia Una stagione all’inferno (BUR 2012, pp. 123, € 7,90) nella collana Rizzoli “I libri della speranza”, tocca chiederlo a Davide Rondoni, poeta, traduttore e curatore della presente edizione. Sarà che tra i maudits Rondoni pare trovarsi a casa (già anni addietro aveva firmato una traduzione davvero memorabile dei Fleurs du Mal, poi ripubblicata da Salerno Editrice nel 2010). Sarà che proprio Rimbaud viene a ricordarcelo: l’inferno è roba da cristiani, gente che o l’eterna felicità o l’eterna dannazione; l’eterno oblio no, grazie. Sarà che, presi come siamo nella routine dei gironi di quaggiù, solo l’inferno vero potrebbe farci ricordare e desiderare la necessità di una speranza soda. Sarà che, come e forse persino più che nei Fleurs, la Saison è trafitta dall’interrogativo della Bellezza: «Una sera ho fatto sedere la Bellezza sulle mie ginocchia. – E l’ho trovata amara. – E l’ho ingiuriata».
Il fulgido libretto dell’enfant terrible di Charleville comincia con una fuga davanti alla Bellezza: «Je me suis enfui, Io sono fuggito». Una fuga programmatica. Fuga dal proprio tempo e dalla propria terra, fuga dai suoi miti e riti, dai suoi dèi, dai suoi salotti, dalla lingua e dalle istituzioni sociali, dalle nebbie della civiltà occidentale tout court. Tutta la Saison è attraversata da questa extrema ratio: occorre abbandonare il continente europeo. È il ritornello ossessionante di un autoesorcismo che contiene, al tempo stesso, la tensione opposta: la disperata euforia di una Cassandra che intossica d’illusione il tempo che le rimane. Perché il poeta vede e sa. Il compiersi della visione si avvicina. Inesorabile. Arthur Rimbaud sa che, per quanto distante, non potrà mai davvero scappare: il «seme maledetto» del battesimo non può essere estirpato. Ed ecco allora il vacillare del veggente. Due passi avanti e uno indietro, fuga e ripensamento. Il beccheggiare del vascello.
Carlo Bo e Jean Danielou non hanno controfirmato al poeta adolescente il patentino di «mistico allo stato selvaggio», come ebbe a scrivere Paul Claudel. Ma una cosa però è certa. La Saison è una profezia che si autoavvera. E la biografia di Rimbaud – abbandono della poesia, abbandono del continente europeo, ritorno da mutilato (non solo nel corpo: «Un uomo che vuole mutilarsi è certo dannato, non è così?») – appare una prosastica appendice a queste pagine. Lui sapeva. Rimbaud aveva irrimediabilmente compreso che non c’era niente per lui nel mito d’Oriente. Partì sapendo di non andare in alcun luogo; sapeva solo di non poter più restare, che per lui non c’era più casa. Da nessuna parte. E a questa comprensione i versi si scolorano di rabbia, mutano quasi in rassegnato abbandono: il suo viaggio non sarà più una fuga, ma “auto esilio”. Una pena da scontare: «Ah! Risalire alla vita! Gettare gli occhi sulle nostre deformità». Forse per questo il veggente di Charleville volle che solo la Saison, unica tra tutte le sue opere, fosse data alle stampe. Quasi fosse un testamento universale.
Arthur Rimbaud, provoca Rondoni nella prefazione, «risulta più utile di Socrate per conoscere, oggi, qualcosa di noi stessi». Ed è così. Anche se, 130 anni dopo esser stato alzato al cielo, il grido «Voglio la libertà nella salvezza!» pare essersi capovolto. Ambiamo ancora la libertà nella salvezza, o piuttosto la salvezza nella libertà? Una libertà che, derubata di ogni argine e direzione, non corre più come torrente in piena, ma spaventosamente appiattisce, ristagna, imputridisce perfino?
Un plauso infine per la traduzione (ad es. «gli anacoreti, artisti come non si chiedono più!» là dove Diana Grange Fiori infilava un «come non ne occorrono più»), pur avvertendo l’assenza di una Nota alla traduzione. Avrebbe permesso di meglio apprezzare alcune scelte peculiari che diversamente restano opache (la forma del prosimetro, spazi e punteggiature alterate, vocaboli che permangono nell’originale, ecc.).
La citazione
«Io! che mi sono detto mago o angelo, dispensato da ogni morale, eccomi restituito al suolo, con un dovere da cercare, e la rugosa realtà da stringere!
Un bifolco!
Mi sono ingannato? per me la carità sarà sorella della morte?
Infine, chiederò perdono per essermi nutrito di menzogna.
E avanti…»
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