Il tempo non basta mai

Rossella O’Hara è una figura di eroina femminile che trasforma la rassegnazione in un’iperbole positiva: quel domani che si scorge su un orizzonte infuocato è quasi il simbolo di una rinascita, di una nuova apertura al mondo. Un mondo che, di lì a poche ore, sarà completamente altro.

Ma se per un momento “usciamo” dalla scena filmica questo “altro” può anche essere letto diversamente: altro non implica necessariamente il concetto di nuovo o di diverso. Potrebbe essere la copia esatta di ciò che è già stato e sarebbe sempre altro…

“Domani è un altro giorno” ha la potenza di racchiudere in sé molti piani di lettura: la speranza, il senso del futuro, il concetto di un tempo che si definisce come una possibilità di cambiamento o di replica all’infinito, lo sconforto, la ripartenza, l’accettazione, la sopportazione, la fiammella della creatività.

Sebbene Rossella O’Hara non sia un personaggio che definirei “simpatico”, proprio questo momento del film ha il pregio di lasciarcene un ricordo “altro”, di donna meno capricciosa, meno volubile, quasi ragionevole.

La consapevolezza di quello che è accaduto, sta accadendo e accadrà disegna il suo nuovo ruolo: domani sarà sempre domani, mentre Rossella domani sarà una persona diversa. Ed è la totale mancanza di conoscenza di quello che avverrà domani a renderla più forte, più capace di guardare avanti. La paura dell’ignoto apre le porte al coraggio.

L’incoscienza (o imprevedibilità) del futuro mi ha fatto venire in mente un film che amo molto, L’uomo che sapeva troppo di Alfred Hitchcock (nel remake del 1956). E, inevitabilmente, la canzone Que sera, sera (Whatever Will Be Will Be), resa celeberrima dall’interpretazione, proprio nel film, di Doris Day (Oscar 1957 come miglior canzone).

Il testo della canzone (canzone che rappresenta nel film l’espediente di salvezza, il domani che rende liberi) gioca quasi interamente sul tempo futuro rendendolo di fatto l’unico tempo possibile. Un tempo che non rivela nulla, che se ne sta nascosto, in attesa, a discapito del titolo del film che certifica l’esistenza di un sapere addirittura eccessivo (troppo).

Che futuro ha un uomo che sa troppo? Non abbiamo nessuno strumento a disposizione per interpretare il futuro (The future’s not ours to see) e il tempo ciclicamente ci si ripropone con i suoi interrogativi, eppure il tipico protagonista hitchcockiano – qui ripiegato sul conflitto morale tra la salvezza del figlio e quella della patria – non viene per nulla sfiorato dalla bellezza leggera di un domani tutto da costruire e senza certezze.

Whatever Will Be, Will Be (Que Sera, Sera)

When I was just a little girl,
I asked my mother, “What will I be?
Will I be pretty? Will I be rich?”
Here’s what she said to me

“Que sera, sera
Whatever will be, will be
The future’s not ours to see
Que sera, sera
What will be, will be”

When I grew up and fell in love
I asked my sweetheart, “What lies ahead?
Will we have rainbows day after day?”
Here’s what my sweetheart said

“Que sera, sera
Whatever will be, will be
The future’s not ours to see
Que sera, sera
What will be, will be”

Now I have children of my own
They ask their mother, “What will I be?”
Will I be handsome? Will I be rich?”
I tell them tenderly

“Que sera, sera
Whatever will be, will be
The future’s not ours to see
Que sera, sera
What will be, will be
Que Sera, Sera!”

E se di domani parliamo, il domani di Lucia Berlin e della sua scrittura ha una dimensione ben diversa. La scrittrice americana mostra in molti dei suoi racconti un rapporto continuo e continuato con il domani, con la speranza di una vita migliore, con il mistero di ciò che è sconosciuto ed è indissolubilmente legato proprio al domani.

Uno per tutti può valere ad esempio l’incipit del racconto Aspetta un attimo da “La donna che scriveva racconti” (al link riportato, una lettura pubblica del medesimo racconto al Festival delle Letterature di Massenzio 2016 minuto -38 circa: https://www.uninettuno.tv/Video.aspx?v=2062).

In quell’imperativo (Aspetta) c’è tutta la profondità del concetto di tempo, di quel domani (un domani doloroso) che, in realtà, non è sufficiente a dire tutto ciò che c’è da dire o a fare tutto ciò che c’è da fare. Aspetta, rendi il domani più lungo, più lontano, mai raggiungibile…

Sospiri, il battito dei nostri cuori, le contrazioni del parto, orgasmi, tutto fluisce nel tempo come le pendole allineate che alla fine battono all’unisono. Le lucciole su un albero lampeggiano nello stesso istante. Il sole sorge e tramonta. La luna cresce e cala e di solito il giornale del mattino tocca terra nel porticato alle sei e trentacinque.

Il tempo si ferma quando muore qualcuno. Naturalmente si ferma per chi muore, forse, ma per chi resta il tempo impazzisce. La morte arriva troppo presto. La morte non pensa alle maree, alle giornate che diventano più lunghe o più corte, alla luna. Straccia i fogli del calendario. Tu non sei alla scrivania o in metropolitana o a preparare la cena per i ragazzi. Stai leggendo “People” nella sala d’attesa di uno studio medico o passi la nottata sul balcone a fumare e a tremare. Fissi nel vuoto, seduta nella camera da letto della tua infanzia, con il mappamondo sulla scrivania. La Persia, il Congo belga. Il brutto è che poi quando torni alla vita di sempre, tutte le routine, le tracce del giorno, sembrano bugie senza senso. Ogni cosa è sospetta, un trucco per tenerci buoni, una ninna nanna per farci scivolare di nuovo nella placida inesorabilità del tempo.

Quando una persona ha una malattia mortale, il tranquillizzante dondolio del tempo va in frantumi. Troppo veloce, non c’è tempo, ti voglio bene, devo finire questa cosa, devo dirgli quest’altra cosa. Aspetta un attimo! Ti devo spiegare. Ma Toby, poi, che fine ha fatto? Altre volte il tempo diventa sadicamente lento. La morte è nei paraggi, tu immagini che arrivi di notte, e invece lei aspetta che si faccia giorno.

[…] Il tempo non basta mai. “Il tempo reale” come dicevano i detenuti a cui facevo lezione spiegandomi che non avevano tutto il tempo del mondo, non era vero. Il tempo non era mai loro.

Esiste un tempo reale, tangibile, misurato. E di certo esiste il suo opposto: che sia il domani? E se anche il domani avesse una dimensione – come dire – afferrabile?

Mi viene in soccorso un altro film piuttosto famoso “It happened tomorrow” (1944) (Avvenne domani) di René Clair.

La storia è quella di un cronista senza troppe prospettive che riceve da un vecchio archivista del giornale le notizie del giorno dopo. Riesce a salvare la donna che ama da un incidente, vive alterne vicende e si trova davanti ad una scelta complicata quando legge, un certo domani, la notizia della propria morte.

In un preciso momento del film il personaggio di Pop Benson, l’archivista, si trova a dire: News is what happens… Time is only an illusion!

Eccolo il domani: una vastità di significati che annovera la routine e la bugia, l’illusione e il possesso, l’indescrivibile e l’auspicabile.

Senza dimenticare che c’è un avverbio che apre la citazione a guida dell’Officina di febbraio e chiude il film: “Dopotutto, domani è un altro giorno!” (After all, tomorrow is another day).

Già, dopotutto

 

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