Una storia fuori tempo

Stare al passo con i tempi. Con questa espressione viene spesso indicata la condizione necessaria per adeguarsi alle evoluzioni della società, essere in grado di aggiornarsi ai mutamenti del contemporaneo, procedere alla stessa velocità del tempo presente. Mi viene in mente un batterista che segue i rintocchi dettati dal metronomo per evitare di andare fuori tempo. La difficoltà di rincorrere il tempo caratterizza il nostro presente, compresso tra un passato in cui oziosamente ci sentiamo a casa (e che spesso non vuole passare, e ci perseguita) e un futuro esigente, carico di aspettative e cambiamenti imprevedibili. I rintocchi del metronomo scandiscono quotidianamente l’ordine temporale entro cui siamo costretti. Ma cosa succederebbe se decidessimo, deliberatamente, di andare fuori tempo?

Nel corso della storia molte personalità si sono distinte, individualmente o collettivamente, per aver operato delle scelte al di fuori dello spirito del tempo. Si tratta di personaggi ricordati spesso come rivoluzionari, che hanno anticipato i tempi incidendo sulle evoluzioni future della politica, della società, della cultura. Sono quelli che hanno creato disordine, che “hanno fatto la storia” o che, come si dice, sono “passati alla storia”. Anche per questo, le gesta di quei personaggi vengono solitamente raccontate in modo epico e seducente, quasi fossero protagonisti di un grande romanzo d’avventura o di un film monumentale. Ciò che più mi affascina di questi racconti epici è, tuttavia, il regime di verità che questi instaurano con la storia: che rapporto c’è tra verità e finzione, tra vicende personali e storia pubblica? E ancora: in che modo la straordinarietà delle loro scelte nella storia finisce per rappresentare, nel presente, uno statuto iconico divenuto ormai normalità?

È proprio in questo rapporto costantemente “fuori tempo” tra passato e presente che s’inseriscono le narrazioni ucroniche, ovvero quei racconti che, dato un periodo o un fatto storico, sostituiscono avvenimenti immaginari a quelli reali, chiedendosi: cosa sarebbe successo se le cose fossero andate in un altro modo?

In queste storie “alternative”, fondate sulla logica del what if, non ci sono personalità rivoluzionarie che compiono scelte anticipando i tempi, ma personaggi che subiscono l’alterazione storica fuori dal tempo. Senza scomodare Tito Livio o Philip K. Dick, mi viene in mente il personaggio di Marty McFly che, nel primo film della saga di Ritorno al Futuro  (1985, Robert Zemeckis), finisce per viaggiare indietro nel tempo, fino al 1955, con l’obiettivo di cambiare e validare alcuni eventi della sua storia.

Il topos  è quello classico del viaggio nel tempo, qui infarcito da caratteri pop e nostalgici, che interroga la dialettica tra determinismo e spazialità del tempo. Adolescente degli anni Ottanta, Marty finisce per vivere il pieno della sua fase edipica fuori dal tempo, direttamente negli anni Cinquanta, dove conosce i suoi genitori alla sua stessa età. Una volta arrivato nel 1955 deve far scoccare la scintilla tra i due adolescenti, per permettere (in un paradosso temporale) la sua stessa nascita. Prima di incidere sulla storia, tuttavia, Marty ha bisogno di riallinearsi al tempo in cui si ritrova improvvisamente catapultato: deve cambiare modo di vestire, parlare, comportarsi, pensare. Non a caso, all’inizio del film la DeLorean, l’automobile costruita da Doc Brown con cui è possibile viaggiare nel tempo, ha una targa con scritto “OUTATIME”, letteralmente “fuori da un tempo”. Marty, insomma, agisce fuori dal tempo sia per validare la sua stessa esistenza (permettere ai suoi genitori di mettersi insieme, e dunque concepirlo) sia per cambiare il presente degli anni ottanta (incidendo, ad esempio, su un cambiamento di personalità del padre).

Anche Raimundo Silva, revisore delle bozze di un libro sull’assedio arabo della città di Lisbona, avvenuto nel 1147, decide di cambiare la storia  compiendo una scelta radicale quanto inspiegabile: aggiungere un “non” al testo originale. I Crociati “non” aiuteranno i portoghesi. Nella pagina che chiude il terzo capitolo della Storia dell’assedio di Lisbona (1990), José Saramago racconta i sentimenti contrastanti provati dal correttore di bozze dopo aver ceduto all’oscura tentazione di sostituirsi all’autore:

Raimundo Silva si è coricato. Se ne sta supino, con le mani incrociate dietro la nuca, non sente ancora il freddo. Ha qualche difficoltà nel riflettere su ciò che ha fatto, soprattutto non riesce a riconoscere la gravità del gesto, e addirittura si stupisce che non gli sia mai venuta prima l’idea di alterare il significato di altri libri che ha rivisto. In un momento in cui gli sembra come di sdoppiarsi, di allontanarsi da se stesso, si ritrova a pensare e si spaventa un po’. Poi si stringe nelle spalle e rimanda la preoccupazione che cominciava a insinuarsi nel suo spirito, Vedremo, domani deciderò se lasciare quella parola, o se toglierla. Stava girandosi sul lato destro, voltando le spalle alla metà vuota del letto, quando ha avvertito che la sirena d’allarme era cessata, chissà da quanto tempo, No, l’ho sentita quando stavo pronunciando il discorso del re, me ne ricordo perfettamente, tra due frasi, quel muggito roco, come di un toro che si fosse perduto nella nebbia, muggendo al cielo bianco, lontano dalla mandria, è strano che non ci siano animali marini che abbiano voci capaci di riempire la vastità del mare, o questo ampio fiume, vediamo com’è il cielo. Si è alzato, si è coperto con la vestaglia di tessuto pesante, invernale, che sempre distende sopra le coperte del letto, ed è andato ad aprire la finestra. La nebbia era scomparsa, non si crede che tanti luccichii vi fossero rimasti nascosti, le luci sul pendio, le altre sull’altra sponda, gialle e bianche, proiettate sull’acqua come tremolanti lumi. C’è un freddo più intenso. Raimundo Silva ha pensato, come Pessoa, Se fumassi, adesso accenderei una sigaretta, guardando il fiume, pensando come tutto è vago e vario, così, non fumando, penserò soltanto che tutto è vario e vago, veramente, ma senza sigaretta, anche se la sigaretta, se la fumassi, esprimerebbe di per sé la varietà e la vaghezza delle cose, come il fumo, se io fumassi. Il revisore si trattiene alla finestra, nessuno lo chiamerà, Vieni dentro, guarda che ti raffreddi, e lui tenta di immaginare che lo chiamino dolcemente, ma rimane ancora un minuto a pensare, vago lui, e vario, e finalmente, come se di nuovo lo avessero chiamato, Vieni dentro, per favore, accondiscende a chiudere la finestra e torna a letto, si corica sulla destra, in attesa. Del sonno.

Esattamente come Marty McFly, Raimundo Silva decide di cambiare la storia ufficiale, incidendo poi sugli sviluppi della sua vita futura (s’innamorerà di Maria Sara, editor rimasta affascinata da quel gesto così audace). A differenza del primo, il secondo non viaggia però nel tempo, ma agisce direttamente nel presente sul racconto della storia. Il testo sottolinea la sensazione di sdoppiamento e allontanamento da sé generata dall’improvviso inserimento di quella congiunzione, un’innocua particella che finisce per stravolgere di senso la storia.

Con il suo atto, il correttore di bozze s’inserisce nel tempo del racconto, sostituendosi per un momento all’autore del libro, per poi uscirne subito dopo. Fuori dal tempo, del racconto e della storia, si ritrova a pensare a come tutto sia vago e vario. A rimandare al giorno dopo qualsiasi preoccupazione per gli sviluppi futuri di quel “non”, ma soprattutto a immaginarsi in una vita alternativa, dove non è più da solo, e viene richiamato dolcemente dentro casa. La stessa vita che arriverà dopo quel “non”, direttamente da un tempo alternativo.

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