[Report] Officina di novembre 2021

Margherita

In un intervento introduttivo, si ripercorrono le questioni affrontate nell’editoriale, a partire dalla sensazione di scollamento rispetto al mondo concentrata nei versi di Emily Dickinson: “Questa è la mia lettera al mondo/che non scrisse mai a me.” La poetessa descrive la sua difficoltà di comunicare con il mondo attraverso l’immagine della lettera non corrisposta, indicando la scrittura come metodo di comprensione della realtà.

Non solo la scrittura, ma ogni forma di linguaggio costituisce uno strumento utile e necessario per muoversi nel mondo. Nel momento in cui ci troviamo di fronte a qualcosa di sconosciuto, infatti, sentiamo il bisogno di dargli un nome, di renderlo individuabile e comunicabile, per poterlo comprendere. 

Questo “dare i nomi” vale per le cose, per le persone, per i luoghi. Su questi si concentra parte dell’intervento, con un brano tratto da Names on the Land di George Stewart, in cui si racconta la scelta del nome per la futura Virginia. Stewart racconta che il nome indiano della regione, riportato alla regina Elisabetta I dagli esploratori del nuovo mondo, era Wingandacoa. Pare che la pronuncia di questa parola abbia ricordato alla regina il suo soprannome – “regina vergine” – e che le sia sembrato particolarmente adatto ad una terra inesplorata e sconosciuta. Elisabetta I scelse poi la forma latina della parola, nominando la regione Virginia. In History of the world, però, uno dei più noti esploratori inglesi, Walter Raleigh, scrive: 

Quando la mia gente chiese come si chiamasse la regione, uno dei selvaggi rispose Wingan-da-coa. Significa all’incirca “indossate bei vestiti”.

Questo equivoco apre all’altro volto del linguaggio, quello della difficoltà o impossibilità di comunicare nel momento in cui si incontrano linguaggi diversi. Sull’argomento vengono mostrate alcune scene da Ro.go.pa.g, film del 1963, e in particolare dall’episodio diretto da Godard, Il Nuovo Mondo. In esso, una bomba atomica esplode sopra Parigi, ma non distrugge palazzi, né uccide persone. L’unica vittima dell’esplosione è il senso logico degli abitanti della città, che iniziano a comportarsi e a comunicare in maniera sconnessa. La vicenda è raccontata da quello che è probabilmente l’unico “superstite” e che di questa condizione percepisce tutta la solitudine. L’uomo nota, infatti, il cambiamento nella donna che ama, con la quale non riesce più a comunicare. Alla fine sarà costretto a rassegnarsi a questo nuovo mondo, frutto di un nuovo linguaggio, uguale nell’apparenza, ma totalmente diverso. 

Greta

In questi tre spunti vediamo tre modi di usare il linguaggio:

Nel testo di Ray Bradbury Rinominare i nomi, tratto da Cronache Marziane, i terrestri colonizzatori di Marte per poter appropriarsi dei luoghi antichi nel nuovo mondo sostituiscono i nomi alieni che trovano con nomi umani.

Arrivarono in quelle strane lande azzurre e imposero i loro nomi, a fiumi, torrenti, città e montagne. Ecco Hinkston Creek, Lustig Corners, Black River, Driscoll Forest, Peregrine Mountain e Wilder Town, tutti nomi di persona o di quello che queste persone avevano fatto. C’era il luogo dove i marziani avevano ucciso i primi terrestri, chiamato Red Town, a causa del sangue versato. Il punto dove era stata distrutta la seconda spedizione fu ribattezzato Second Try, e ogni volta che gli uomini dei razzi piazzavano i loro calderoni incandescenti a bruciare la terra, si lasciavano dietro nomi come tracce di cenere.

Gli antichi nomi marziani erano nomi di acqua, di aria e di colline. Erano i nomi della neve che a sud si dissolveva nei canali di pietra per riempire il mare prosciugato. Ed erano i nomi di stregoni, torri e obelischi, sigillati e sepolti. I razzi battevano i nomi come martelli, frantumavano il marmo in scisto, disintegravano le pietre miliari di terracotta con i nomi delle vecchie città e tra le macerie infilzavano grossi piloni con i nomi nuovi: IRON TOWN, STEEL TOWN, ALUMINIUM CITY, ELECTRIC VILLAGE, CORN TOWN, GRAIN VILLAGE, DETROIT II, tutti termini meccanici, minerari, della Terra.

Dopo che le città furono costruite e battezzate, si passò a costruire e battezzare anche i cimiteri: Green Hill, Moss Town, Boot Hill, Bide a Wee, e i primi morti finirono nelle proprie tombe…

Nella scena finale di City Lights il linguaggio utilizzato è quello del tatto: la ragazza che all’inizio del film era cieca e che ora ha riacquisito la vista grazie a Charlot, riesce a riconoscere quest’ultimo non attraverso le parole ma attraverso il suo vecchio linguaggio.

https://www.youtube.com/watch?v=LHBHdYgg9fI

Il cortometraggio Yes-People riduce il linguaggio a una sola parola; ogni personaggio infatti vive la propria quotidianità comunicando solo e soltanto con diverse tonalità ed espressività di “sì”.

Valerio

In a hole in the ground there live a Hobbit.

Con queste parole si apre l’universo tolkeniano. Racconta Tolkien, di aver pensato questa frase mentre correggeva alcuni compiti dei suoi studenti:

Uno dei candidati aveva, per misericordia divina!, lasciato uno dei fogli intonso ed è la cosa migliore che possa mai succedere ad un esaminatore, così io vi ho scritto: “in una buca del terreno viveva uno Hobbit”. I nomi hanno sempre provocato nel mio cervello il desiderio di narrare una storia: e di conseguenza ho pensato che avrei fatto meglio a scoprire che razza di personaggi erano gli Hobbit.

L’invenzione linguistica anticipa la narrazione della storia. Come in numerosi miti della Creazione, nominare un mondo è un processo fondamentale per portarlo ad esistenza. Analogamente avviene ne La storia infinita, dove Bastiano, per salvare Fantàsia, deve desiderare (e quindi scegliere), ma anche dare nomi alle cose. Nominare uno spazio, significa crearlo (o ricrearlo) e appropriarsene. Ma più Bastiano dona identità al luogo, più smarrisce la propria identità.

Questo rapporto tra luogo e linguaggio è ben esplicato da Giorgio Manganelli, in uno scritto di commento al romanzo Flatlandia di Abbott:

La Flatlandia, la terra bidimensionale abitata da figure totalmente piatte, è appunto invenzione in senso rigoroso: scoperta e delimitazione di uno spazio astratto mediante la creazione di un linguaggio. Un luogo è un linguaggio: noi possiamo essere “qui” solo accettando le regole linguistiche che lo inventano. Essendo il porsi di un linguaggio arbitrario e non deducibile, i diversi linguaggi indicheranno luoghi totalmente discontinui. Come è appunto la Flatlandia, nei confronti di qualsiasi luogo umano.

I luoghi sono delle invenzioni linguistiche, tuttavia per chi non conosce quelle regole linguistiche diventa difficile orientarsi, soprattutto a causa della loro arbitrarietà. Ad esempio, in Lost in translation, Bob Harris (Bill Murray) è un attore che deve girare uno spot in Giappone, ma – anche a causa di problemi di traduzione – non riesce ad entrare “in contatto” con le richieste del regista.

Un simile disorientamento linguistico si registra in questo sketch dei Monty Python, in cui un finto dizionario inglese-ungherese causa incomprensioni e violenze. Anche in questo caso si tratta di un problema di errata traduzione.

Tuttavia l’interprete è solo parte del problema. L’obiettivo di un simbolo, ad esempio, è quello di sintetizzare un significato «universale», ossia facilmente comprensibile da tutti, senza la necessità di un interprete. Ma i significati non sempre sono univoci. E possono variare a seconda del contesto.

La questione, quindi, non è (solo) l’errata traduzione, ma l’assenza di un condiviso tessuto esperienziale. “Noi non possiamo capire un leone, perché non conosciamo il suo mondo”.

Una simile difficoltà di comprensione del mondo altrui la riscontra il lettore del racconto Il maiale di Mag – 4000 a.C. (da La voce del fuoco, di Alan Moore). Il protagonista, un ragazzo del 4000 a.C. con un deficit cognitivo, non conosce più di 300 parole circa. Questo limite linguistico segna non solo il confine della comprensione da parte del lettore, ma soprattutto segna il confine della comprensione della realtà da parte del protagonista stesso.

Lontano in dietro a colle, là verso sol-che-scende, cielo è ora come fuoco e io fa cammino lì, senza fiato in pancia, ed erba fredda e bagna piedi a me.
Niente erba è su alto di colle. Solo terra tutta in torno che colle è come uomo senza ca-peli in testa. Io mette su piedi e volta faccia a vento per sente odore, ma niente odore viene da lontano. Pancia fa male, qua in mezzo a me. Aria di pancia sale su in bocca e lecca lei è come lecca niente. Grumo di sangue secco è ora nero su ginocchio e deviene con pizzica. Io sgraffia e altro sangue ancora viene fuori.
In sopra di me è tante bestie di cielo, grosse e grigie. Lente è che si muove, come se ha niente forza in loro. Forse cerca cibo, come cerca io. Una è così vuota in pancia che stacca e vola via e allora quella corre veloce veloce dietro di lei, come se vuole riprende. In-basso di cielo, erba e bosco va lontano da qua, che io dopo vede altro colle e dopo solo piccoli alberi in torno a lato di mondo.

Ora io a-bassa sguardo su erba in giù di colle e vede maiali. Maiali grossi e lunghi, maschio su dorso di femmina (…). Dentro pancia di me, io coglie che può corre in-basso di colle, va in sopra di maiali, dà botta con pietra a lei e fa lei deviene non viva, che così io mangia tutta. Questo è raccolto di me. E ora questo io fa.

Da alto di colle io scende giù su terra secca, in mezzo a erba fredda, e corre giù veloce e scende su maiali che loro non ha tempo di deviene quello che io poi non può mangia, come topo che io un tempo prende e che poi deviene piccoli sassi. Veloce io corre giù su maiali che mentre loro sono ancora maiali io prende loro. (…)

Veloce io corre, ma oh, piedi di me vola su da erba scivola e io cade, ah, e cade giù da colle.

Veloce io mette su piedi che così prende maiali. Caduta fa me lento e ora loro può deviene altro, che io non sente odore di niente più maiale. Per questo pancia di me è in paura, a che io corre più veloce e guarda maiali più da vicino a loro, ma ah. Ah, femmina maiale tutta cambia, gambe di lei di in dietro non c’è più. Tutto in fuori di faccia nera di lei è gira in dentro ed è ora buco pieno di buio. Io corre più veloce che loro è ancora un po’ maiale quando io cerca prende loro, ma oh, in loro più niente muove e loro ha odore tutto marcio. Loro deviene meno maiale quanto io fa più cammino.

Ora io a-lato di loro che sono solo tronchi di legno bianco che poggia uno su altro. Occhi è deviene buchi di legno. Zampe di maiale è deviene ceppo di rami. Ah.

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