The Elisabeth Show
Capita di comprare un libro perché attratti dalla copertina; a volte si ascolta il consiglio di un amico o si dà fiducia ad un autore già apprezzato in passato; accade pure che un esordiente, classe 1982, monopolizzi per qualche settimana l’attenzione di blog letterari e stampa cartacea, al punto da voler maturare una propria opinione. La novità si chiama Paolo Sortino; il romanzo, pubblicato da Einaudi, risponde al nome di Elisabeth e sul libro si sono già espressi fior fiore di giornalisti e scrittori (Giorgio Vasta sul Manifesto, Walter Siti su La Stampa, Chiara Valerio su Nazione Indiana, etc…). Tutti d’accordo, ed io con loro, nell’esaltare lo stile del giovane Sortino: ciò che sorprende non è tanto la padronanza dello strumento narrativo, quanto piuttosto la costruzione di un linguaggio capace di reggere il confronto con il dramma messo in scena. Se a ogni porta non corrispondeva più una sola chiave, di certo occorreva cercarne una speciale che le aprisse tutte; un grimaldello che soverchiasse la regola, capace di scardinare tutti i passaggi della comprensione. Ecco, sono riuscito a scrivere dieci righe senza fare accenno alcuno alla trama … ma quando il racconto “accarezza” fatti realmente accaduti, parlare di trama forse diventa fuori luogo.
La prigione di Elisabeth è già apparsa sui giornali, ma ai tempi occupava il paginone di cronaca e non l’inserto di cultura. Io la ricordavo a malapena, ci ha pensato una manciata di battute a rinfrescarmi la memoria. 1979, città di Amstetten. Sotto le minacce della guerra fredda, il cittadino Joseph Fritzl ottiene le concessioni edilizie necessarie a costruire un bunker antiatomico nelle fondamenta di casa. Qualche settimana più tardi vi rinchiuderà sua figlia Elisabeth. Seguono duecento pagine, ventiquattro anni trascorsi nel bunker, sette figli e chissà quanti stupri, che pure non hanno alcun valore documentario, ma sono da intendersi come puro frutto di immaginazione. Lo stesso Sortino giustifica così la sua scelta narrativa: Tra possibilità e scelta si muove ondivaga la totale libertà della mia Elisabeth e degli altri personaggi, per i quali ho inventato una vita che non vuole essere né migliore, né peggiore di quella reale, ma solo possibile. Ho pensato molto a questa frase, mi dà come l’idea di un cerchio che avvolge un insieme di punti su un pezzo di carta; Sortino prende la “famiglia” Friztl e qualche blocco di cemento spesso tre metri e li chiude in uno scatolone a rivivere la loro storia. Suona come una condanna, specie se si pensa che non stiamo parlando di personaggi in cerca d’autore. Non riusciva ad individuare quel punto di se stessa in cui la vita continuava a rinascere ogni volta che il padre gliela estirpava con la forza.
Procedendo nella lettura, più volte mi fermo a riflettere sulle violenze ripetute, sul lento e graduale meccanismo che porta la ragazza a diventare padrona del bunker che la imprigiona, maturando un rapporto quasi simbiotico con le mura, Pipifronzola (il frullatore) e gli altri oggetti che battezza uno ad uno. La sorte migliore che poteva capitare a un oggetto era trovarsi nell’inventario di Elisabeth; questo significava ricevere un posto nell’esistenza. Ma proprio sul nascere, il pensiero si scontra con la sua fragilità, con la consapevolezza che di fronte al fatto concreto, una mia Elisabeth vale quanto la sua; vivere nel riflesso della tragedia reale negherà per sempre ad entrambe la gioia della finzione e non basta chiudere il libro per mettere a tacere un’eco lontana di dolore. Per quanto sia grande, il cerchio disegnato ha ancora l’aspetto di una prigione; per Elisabeth, a cui è negata una vita fuori dalle mura, per i figli nati e cresciuti sottoterra ignorando che esista un “fuori le mura”, per Joseph troppo lento nel capire che la sua prigione è proprio quella doppia vita di cui non può parlare, quella doppia vita che giorno per giorno assomiglia sempre di più al piano di sopra da cui voleva scappare. Ma ancora peggio è la mia prigione, la gabbia della mia fantasia incapace di assumere il controllo della situazione e costruire percorsi paralleli. Penso al finale di Buongiorno notte, al sottofondo musicale dei Pink Floyd che accompagna l’uscita di silenziosa di Aldo Moro; penso alla scelta di Truman che, pur vivendo in una favola di cartone, varca i confini del suo mondo inventato; e penso ancora ad una splendida scena de Le ali della libertà, al carcerato Andy Dufresne che trova ne Le nozze di Figaro quel senso di libertà che nessuna cella di isolamento gli potrà mai levare. Tutto questo nel romanzo di Sortino non potrebbe esistere, nel mondo possibile di Elisabeth non c’è spazio per la salvezza. Stride pure, e volutamente credo, la tenerezza, più volte invocata dall’uso di vezzeggiativi (‘abituccio’,’piedini’, ‘tesoro’, ‘con una semplice monetina, il padre era riuscito a commuoverla’); non è sufficiente la costruzione di una piscina, regalo di compleanno per l’ultimo dei figli, a guidare Joseph sul sentiero di una improbabile redenzione. Ciascuno dei “personaggi” rimane in fondo inchiodato al proprio copione. L’unico a cui Sortino costruisce una via di fuga è un bimbo nato morto, che scopre il soffio della vita nel bagliore delle fiamme di un inceneritore. È proprio questa la pagina che vorrei suggerirvi come assaggio della sua scrittura.
Continuò a seguire con gli occhi gli sfiati d’aria dovuti alla fusione, il sibilo che emettevano: le membra liquefatte colavano nel vano sottostante. Ogni goccia si portava dietro uno strato di cenere: lacrime colore del piombo, o della viola, altre nere come nulla di paragonabile, si raccoglievano lì sotto come argento opaco. Una forma grigia che conteneva tutti i colori del corpo umano fusi insieme. Si vuotava la gabbia toracica crollando in se stessa come una struttura di fiammiferi carbonizzati. Una pozza bollente che dilagava e si saldava al fondo d’acciaio divenendo un corpo unico con esso.
I rami scheletrici e le ossa del bambino si accartocciavano per rompersi. Non riusciva più a distinguere le parti del corpo dai pezzi di legna che consumandosi precipitavano fumanti, diventando brace, scintille e schegge di ruggine viva. Poi vide muoversi qualcosa. Si staccò dal fuoco la sagoma di un piede, forse, o legna troppo giovane per bruciare facilmente. Venne giù dai rovi ardenti disegnando un solco nella cenere; gli sembrò di intravedere un ginocchio. Il fianco del bimbo sfondò un castello di brace e ruzzolò su se stesso, scuotendo altra legna nel dominio generale. Una nuvola di fumo denso si alzò e invase lo spazio fin sul vetro dal quale Joseph si ritrasse di colpo per non esserne investito. Subito si riavvicinò, attendendo che il fumo si levasse per la canna fumaria. Nella costellazione esplosa di stelle d’arancio, fissò lo sguardo su un movimento in fondo al braciere. Scorse il sedere del bimbo che indietreggiava carponi, come per tirare via la testa da sotto le vampate. […] Aveva gli occhi cavi ma vedeva tutto. Cercava il padre con lo sguardo, agitando le manine festoso. Si piegò su un fianco e cercò di mettersi in piedi . A ogni tentativo ricadeva sulla legna, che si sgretolava in miliardi di faville leggere come lucciole. Più distruggeva i ceppi coi movimenti, più si divertiva. […] Con un modo di fare già adulto scansò con la mano i rami più sottili. Si voltò una volta in direzione del padre, sorridendogli, poi si aggrappò al bordo di un condotto che distribuiva aria calda fino ai piani superiori.
Lo stile di Sortino è senz’altro originale, espressivamente efficace, forte e delicato allo stesso tempo, sa far vedere, turbare, inorridire e commuovere, ma quella raccontata è una vicenda di tale stravolgimento dell’essere-uomo per cui mi chiedo se sia opportuno che la letteratura peschi nel torbido così nero, così profondo.