Fuori dall’Impero

La classica separazione (e opposizione) tra scienze naturali e scienze umane si basa sulla differenza che vi sarebbe tra spiegazione e comprensione del mondo.

Le prime si occuperebbero di fornire una spiegazione della realtà (intesa come un insieme di concatenazioni causali prive di senso intenzionale) in termini di esattezza e certezza, le seconde si occuperebbero di comprendere, attraverso interpretazioni storico-ermeneutiche, la realtà composta da processi intenzionali e interazioni umane. Se questa distinzione già da tempo appare agli studiosi come estremamente problematica (comprendere anche solo un passaggio della storia del pianeta impone una visione trasversale sulle interazioni tra mondi animali, mondi umani, mondi microbici, così come appare evidente la commistione tra causalità e casualità nel susseguirsi degli eventi, anche naturalistici) oggi, questa separazione, appare ancora più priva di significato.

L’idea di poter delimitare la storia al solo ambito delle azioni umane volontarie e, in modo complementare, l’idea di poter comprendere in modo esatto e certo, ponendoci come osservatori disincarnati, la natura che ci circonda, appare sempre più inconcludente. Abbiamo oggi ancora di più la consapevolezza del fatto che, così come i processi storici non sono riducibili alle azioni intenzionali di chi vi ha preso parte, così anche i fenomeni e processi naturali non possono essere ridotti ad uno schema causaldeterministico impermeabile alle interazioni con l’ambiente di più elementi: anche solo per capire come avvenga l’ormai noto fenomeno dello “spillover”, il salto di un patogeno da una specie ad un’altra, è impossibile non considerare aspetti socioeconomici, demografici, storici, oltre che meramente biologici e naturalistici.

Ritorna allora più utile che mai l’antropologia spinoziana, che confutava il mito dell’uomo come “un impero nell’impero”, cioè come quell’essere che agisce in modo separato, indipendente e dominatore rispetto a una sfera naturale isolabile e delimitabile.

Oggi, anche e soprattutto attraverso l’esperienza della pandemia di COVID-19, possiamo affermare che è stato dato il colpo di grazia a questa concezione dell’essere umano come un “impero nell’impero”; la nostra prospettiva è stata totalmente decentrata, ci ritroviamo “sfasati” rispetto a quello che credevamo essere il nostro centro, e anche il nostro fuori: da una parte quel “fuori” naturale che cercavamo di spiegare con certezza e precisione si è rivelato caratterizzato da casualità randomiche e eventi contingenti, ha dimostrato nella pratica l’interconnessione con il nostro “impero” e ha ribadito con forza il suo diritto di cittadinanza e ha prepotentemente occupato il nostro centro; dall’altra, ci siamo ritrovati spodestati dal nostro posto di comando e osservazione, e ci siamo ritrovati a percepire un mondo fatto di coabitazione, vulnerabilità e impotenza rispetto alla capacità effettiva della nostra volontà e delle nostre azioni.

La fase 2 della pandemia ha così sancito la fase della convivenza, non solo a livello esistenziale e psicologico, ma anche a livello politico, sociale, scientifico: una singola azione o una singola spiegazione non possono prescindere, in questa fase storica, dal confronto aperto e trasversale con tutti gli altri saperi, non possono essere effettuate in modo unilaterale e individualistico e non possono autoregolarsi secondo criteri e dati isolati.

Questo impone un ripensamento radicale di quelli che sono i confini delle nostre scienze e della comprensione che abbiamo della realtà.

Nel 1916 Freud, nel testo Una difficoltà della psicoanalisi analizzava le tre grandi ferite alle illusioni narcisistiche che la storia ha insegnato all’essere umano: Copernico dimostra che la Terra non è al centro dell’universo, Darwin dimostra che l’uomo non è al centro dell’evoluzione né è diverso o superiore alle altre specie, la psicoanalisi dimostra che l’Io non è padrone di se stesso.

Potremmo continuare la sequenza dicendo che le pandemie ci portano in modo sempre più chiaro la consapevolezza che non siamo al centro nemmeno della nostra storia: l’agire di tutti e di ciascuno non produce la storia umana tanto quanto la causalità meccanica non produce la storia naturale. La realtà non è scomponibile in compartimenti stagni: la storia naturale e la storia umana non sono due facce separate della stessa medaglia, che formano un kosmos fatto di complementarietà. Al contrario, emerge sempre più chiaramente la simultaneità tra processi storici e processi biologici-naturalistici, l’interconnessione che sussiste tra spiegazione e comprensione.

Il nostro centramento psicologico, sociale, antropologico, scientifico, si è rivelato più che mai fluttuante, riconquistatile solo attraverso continui assestamenti, in condizioni mutevoli, secondo un movimento incessante di aggiustamenti tra interno ed esterno, organismo e mondo.

Diviene fondamentale allora acquisire un tipo di pensiero che sia in grado di articolarsi attorno a questa simultaneità dei processi, che si “sfasi” rispetto a una visione riduzionistica  o essenzialistica dell’esistente e che sappia mettere al centro la trasversalità dei saperi e la mobilità costante che c’è tra necessità e libertà, tra natura e storia.

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