Immaginare l’altrove

Signori imperadori, re e duci e tutte altre genti che volete sapere le diverse generazioni delle genti e le diversità delle regioni del mondo, leggete questo libro dove le troverrete tutte le grandissime maraviglie e gran diversità delle genti d’Erminia, di Persia e di Tarteria, d’India e di molte altre province.

Questo è l’incipit di quello che forse è il più famoso esempio di letteratura di viaggio scritto in Italia, ossia Il Milione di Marco Polo. Visitare l’Oriente, alla fine del Tredicesimo secolo, era un’esperienza unica possibile per pochissime persone e il viaggiatore si rivolgeva ad un pubblico che mai avrebbe potuto vedere la Cina o l’India. Marco Polo deve perciò stimolare la fantasia dei suoi lettori, permettendo loro di immaginare l’altrove. Per introdurci subito nel mondo che intende narrare usa due parole chiave: “diversità” e “maraviglie”. L’altrove, infatti, è per definizione ciò che non è “qui”, che invece corrisponde al luogo, di dimensione spaziale variabile, dove tutto, più o meno, somiglia a ciò che conosciamo. Perciò per farsi un’idea dell’altrove, sembra sottintendere Marco Polo, si può partire da ciò che è a noi vicino e immaginarlo diverso, capovolto. Ovviamente questa operazione porta di rado all’intuizione della realtà di un posto lontano, creando più facilmente nella nostra mente panorami idealizzati oppure grotteschi e assurdi.

Un divertente esempio di questo fenomeno lo si può leggere nella novella di Frate Cipolla contenuta nel Decameron di Boccaccio. Il frate truffatore, nel tentativo di guadagnare rifilando a degli ingenui paesani una piuma d’uccello facendola passare per quella dell’arcangelo Gabriele, racconta dei suoi viaggi immaginari in terre esotiche:

Ma perché vi vo io tutti i paesi cerchi da me divisando? Io capitai, passato il braccio di San Giorgio, in Truffia e in Buffia, paesi molto abitati e con gran popoli; e di quindi pervenni in terra di Menzogna, dove molti de’ nostri frati e d’altre religioni trovai assai (…) e quindi passai in terra d’Abruzzi, dove gli uomini e le femine vanno in zoccoli su pe’ monti, rivestendo i porci delle lor busecchie medesime; e poco più là trovai gente che portano il pan nelle mazze e ‘l vin nelle sacca: da’ quali alle montagne de’ bachi pervenni, dove tutte le acque corrono alla ‘ngiù. E in brieve tanto andai adentro, che io pervenni mei infino in India Pastinaca, là dove io vi giuro, per l’abito che io porto addosso che io vidi volare i pennati, cosa incredibile a chi non gli avesse veduti (…) arrivai in quelle sante terre dove l’anno di state vi vale il pan freddo quattro denari, e il caldo v’è per niente. E quivi trovai il venerabile padre messer Nonmiblasmete Sevoipiace, degnissimo patriarca di Jerusalem.

La comicità del passo consiste proprio nel fatto che il frate può inventare, a partire da reali località del Centro Italia o da giochi di parole nella sua lingua, terre sconosciute che suonano straniere all’orecchio dell’ascoltatore. Il suo pubblico non riconosce l’assonanza della toponomastica inventata con quella di luoghi conosciuti perché le premesse favolose del frate hanno attivato nella mente delle persone un’immaginazione che si allontana dalla quotidianità e la capovolge.

Possiamo ridere degli ignoranti provinciali del Quattordicesimo secolo descritti da Boccaccio fino a quando non ci accorgiamo di somigliare loro più di quanto vorremmo. Ma non è un caso se Marco Polo tira in ballo anche le “maraviglie” delle terre lontane, il cui pensiero suscita stupore e curiosità da sempre. E questa curiosità, legata alla capacità di meravigliarci della nostra stessa potentissima immaginazione, è forse la cosa migliore che ci sia mai capitata. Cosa sarebbe stata la storia dell’umanità se non fossimo stati in grado di mettere in discussione lo status quo, il nostro “qui”, e costruire con la fantasia mondi ideali?

Conosciamo ancora piuttosto male la configurazione della terra; e non capisco come ci si rassegni a tale ignoranza. Invidio coloro che riusciranno a compiere il giro dei duecentocinquantamila stadi greci calcolati così bene da Eratostene, percorrendo i quali ci si ritroverebbe al punto di partenza. M’immaginavo nell’atto di prendere semplicemente la decisione di continuare a camminare davanti a me, sulla pista che ormai sostituiva le nostre strade. (…)

Ciò nonostante, quel sogno mostruoso, che avrebbe fatto fremere i nostri avi, saggiamente confinati nella loro terra del Lazio, io l’ho fatto, e l’averlo avuto solo un istante mi rende diverso da essi per sempre.

In questo passo tratto da Memorie di Adriano di Marguerite Yourcenar, il protagonista immagina di iniziare a camminare fino a compiere il giro della Terra e conoscere così ogni parte del mondo. Adriano sa che quel viaggio non lo farà mai, ma è lo stesso desiderio di conoscenza e di scoperta del diverso a renderlo per sempre differente da coloro che lo hanno preceduto. Il progresso spirituale dell’umanità dipende per lui direttamente dalla curiosità e dal coraggio di mettere in discussione la realtà che ci circonda per guardare fino a “laggiù”. Adriano  non a caso è imperatore, un imperatore che crede nell’umanità, che le città, i templi e i monumenti oltre che visitarli li costruisce. Pur essendo un uomo pratico, mai per un secondo perde di vista la sua utopia. Perché immaginare l’altrove, che sia questo altrove l’iperuranio, la Cina o l’America, serve anche a questo, a delineare le caratteristiche di una “città ideale” come obiettivo di ognuno di noi e che serve a guidare le nostre azioni.

La letteratura pullula di città ideali, che sia l’Utopia di Tommaso Moro o El Dorado, la città fatta di oro e pietre preziose dove però le ricchezze non hanno valore e regna per questo la pace. Questi luoghi immaginari sono creati forse con la stessa tecnica del capovolgimento su cui puntava Frate Cipolla, ma la differenza sta nel fatto che nessuno crede che siano reali. L’importante è che vivano nell’intelletto e nel cuore e che funzionino da argine contro il nichilismo. Questo discorso è ben sintetizzato dalla canzone L’isola che non c’è di Edoardo Bennato.

Forse questo ti sembrerà strano
Ma la ragione ti ha un po’ preso la mano
Ed ora sei quasi convinto che
Non può esistere un’isola che non c’è

E a pensarci, che pazzia
È una favola, è solo fantasia
E chi è saggio, chi è maturo lo sa
Non può esistere nella realtà

Son d’accordo con voi, non esiste una terra
Dove non ci son santi né eroi
E se non ci son ladri, se non c’è mai la guerra
Forse è proprio l’isola che non c’è, che non c’è

E non è un’invenzione
E neanche un gioco di parole
Se ci credi ti basta, perché
Poi la strada la trovi da te.

In questo caso la dinamica del capovolgimento è resa evidente: un’isola senza eroi dove non si fa la guerra semplicemente non esiste, è solo frutto del ribaltamento della realtà che l’autore si trova di fronte tutti i giorni. Tuttavia esiste in quanto “isola che non c’è”, cioè in quanto utopia e il suo scopo è quello di fungere da meta per il percorso che tracciamo

C’è però un pericolo insito nell’immaginare l’altrove, come ben illustrano I viaggi di Gulliver di Jonathan Swift. Quando il protagonista torna a casa dai suoi viaggi nelle terre sconosciute frutto della fantasia dell’autore, ultima fra le quali la perfetta città ideale dei cavalli dotati di ragione, non riesce più a sopportare la sua realtà:

Varcata la soglia, mia moglie mi si gettò al collo baciandomi ed io, che da tanti anni avevo perso il contatto con quell’animale repellente, persi i sensi per più di un’ora. Mentre sto scrivendo, sono ormai passati cinque anni dal mio ritorno in Inghilterra; durante il primo anno non riuscivo a sopportare la presenza di mia moglie e dei figli, il loro odore era intollerabile. Mi era impossibile mangiare con loro, nella stessa stanza, e ancora oggi non si azzardano a toccare il mio pane o bere nel mio bicchiere e, quanto a me, non permetto a nessuno di loro di prendermi per mano. La prima spesa che ho fatto, è stato l’acquisto di due giovani stalloni che ospito in una stalla sempre pulita. Dopo di loro il mio prediletto è il garzone, il cui odore di stalla mi rimette al mondo. I miei cavalli mi capiscono abbastanza bene e passo almeno quattro ore al giorno a parlare con loro. Cosa siano briglie e sella non se lo immaginano nemmeno, nutrono per me un affetto sincero e una vera amicizia.

Swift ci mostra l’aspetto oscuro dell’altrove. Il pensiero di un luogo lontano che si collochi all’opposto della nostra realtà imperfetta – sia questo posto immaginario, oppure esistente ma idealizzato – può potenzialmente rovinarci la vita e renderci insopportabile il mondo che ci circonda.

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