Il ricamo non è un merletto e nemmeno una trina
Anche io partirò dalla definizione di una differenza: quella tra ricamo e merletto (pare che merletto e pizzo, poi, siano sinonimi). Il ricamo, per essere eseguito, ha bisogno di un supporto esistente, la tela, il tessuto; il merletto invece nasce dal solo utilizzo di filo e attrezzi quali l’ago, l’uncinetto e i ferri. Riporto da un articolo di settore: Potremmo dunque semplificare il tutto nella definizione che il ricamo è una lavorazione sovrapposta e opaca mentre il pizzo è un’inserzione o un bordo “libero” e traforato che sostituisce una parte o l’intero tessuto.
In questa definizione ritroviamo un aspetto enunciato nell’editoriale di questo mese, che esamina il rapporto fra pennello e ago, fra uno strumento che rimane in superficie e uno che la attraversa. E non si può non pensare alla lettera che Michelangelo Buonarroti scrisse a Benedetto Varchi sul raffronto fra scultura e pittura: Io intendo scultura, quella che si fa per forza di levare: quella che si fa per via di porre, è simile alla pittura. Il pennello lascia il colore sulla tela; l’ago lascia un filo che non si posa semplicemente ma “possiede” la tela.
La parola ricamo pare derivare dall’arabo “raqm” e avere un’origine molto più antica del termine merletto che, invece, nasce nel Medioevo e fa riferimento ai merli, ovvero agli elementi architettonici a coronamento di edifici come palazzi e torri, usate a difesa delle frecce di balestre e per avere un controllo dall’alto sui nemici. Il vocabolario dice che il merletto è quella guarnizione, terminante generalmente in piccole punte, che si applica al vestiario e alla biancheria femminile per rifinitura o orlatura. La parola pizzo – che spesso è utilizzata come sinonimo di merletto – ricorda che esiste una forte somiglianza tra le dentellature del filo e le vette delle montagne. Il termine trina sembra derivi dalla contrazione della parola rinascimentale “tarneta” e indicherebbe elementi decorativi dell’abbigliamento come bordure di dimensioni ridotte. Il vocabolario lo fa risalire al latino trinus ossia triplice e recita: Con uso specifico o più comune (rispetto a merletto), trine di punto o all’ago, quelle eseguite senza l’aiuto di nessun altro accessorio che un ago: si compongono di punti festone diversamente disposti, eseguiti con un filo solo.
Il comun denominatore di queste definizioni è dunque l’ago. Uno strumento piccolissimo e potente che diventa una sorta di scettro nelle mani delle donne di ogni età e di ogni epoca.
Vale la pena richiamare ancora una volta Penelope e la sua tela: non per parlare propriamente di lavoro fatto con l’ago quanto di versi tramandati attraverso i secoli da un non meglio identificato (Omero?) rapsodo. La parola rapsodo significa: cucitore di canti (rháptō cucio, saldo + ōidḗ canto). E non è un caso.
Esiste, oltre alla questione terminologica, anche una questione artistica, estetica: la bellezza dei manufatti, in primo luogo, ma pure la delicatezza dell’occhio e della mano di pittori che hanno ritratto il gesto del ricamo e, in generale, del cucito.
A cominciare da Diego Velasquez con la sua “Donna che cuce” (1650), alla National Gallery of Art di Washington
per proseguire con i noti dipinti di Jan Vermeer, “La merlettaia” (1669-70), conservato al Museo del Louvre (Parigi),
di Nicolaes Maes, “La Merlettaia” (1655), alla National Gallery of Canada a Ottawa
o di Caspar Netscher, “La Merlettaia” (1662), alla Wallace Collection di Londra.
I pittori olandesi ricorrono spesso a questo tema per riproporre e sottolineare il valore lle virtù domestiche femminili. Un po’ diverso è il punto di vista di Antoine Raspal nel suo celebre dipinto “L’atelier della sarta”. Siamo nel 1760 circa e la scena si svolge non in una casa privata, ma in un vero e proprio negozio che ha sede nella cittadina provenzale di Arles.
Se ancora una volta ci soffermiamo sulle differenze, notevole è la distanza fra l’intima atmosfera di calma e semplicità della solitudine espressa da Vermeer e l’allegra confusione che regna nel gruppo di sarte e ricamatrici riunite al lavoro. Sulla tela dell’artista olandese, oltre al gioco attento di luci e ombre, spicca il libro con nastri in primo piano: un libro di preghiere, forse la Bibbia che rimarca la tranquillità domestica dell’ambiente. Ad Arles, invece, la luce entra da una grande finestra (una sorta di vetrina?) e la scena ha un dinamismo tutto suo, quasi un caos allegro: le ragazze si muovono su preciso ordine della sarta seduta su un panchetto sopraelevato e sono circondate da stoffe pronte al ricamo e da una confusione di rocchetti a terra e ceste piene di ritagli. Si percepisce il chiacchiericcio, il confronto sul lavoro in atto, la confidenza.
Ad un altro secolo di distanza, questa volta nel nostro paese, la rappresentazione del cucito, del ricamo è molto presente nei dipinti di quel gruppo di artisti chiamato “I macchiaioli”, attivo principalmente in Toscana nella seconda metà dell’Ottocento. Secondo uno degli esponenti, Adriano Cecioni: “[…] la macchia è base, e come tale rimane nel quadro. […] Il vero risulta da macchie di colore e di chiaro-scuro, ciascuna delle quali ha un valore proprio che si misura col mezzo del rapporto. In ogni macchia questo rapporto ha un doppio valore, come chiaro o scuro e come colore.”
C’è un dipinto proprio di Cecioni, “Le ricamatrici” (1865-1866) che richiama sia la quiete di Vermeer che l’ambientazione arlesiana di Raspel. Le tre ragazze siedono vicino ad una finestra aperta, intente a lavorare d’ago. Si percepisce il silenzio e la concentrazione, ma anche quella complicità tipica di un lavoro svolto insieme.
Pressoché contemporaneo è l’olio su tela dal titolo “Cucitrici di camicie rosse”, realizzato nel 1863 dal pittore Odoardo Borrani, ed attualmente conservato presso una collezione privata. Si tratta di un quadro dai tratti intimisti.
L’autore racconta attraverso un’interpretazione “domestica” gli avvenimenti che hanno segnato la sconfitta di Garibaldi in Aspromonte nell’agosto del 1862: Borrani restituisce il clima della nascente borghesia toscana postunitaria, spinta da un certo fervore patriottico e sempre dominata da un profondo senso degli affetti famigliari. Ritroviamo la finestra, l’attenzione per l’arredo ed il senso di quiete.
Sempre per mano di Borrani il dipinto dal titolo “26 aprile 1859” rappresenta una giovinetta che cuce, unendo dei cenci, la bandiera tricolore. L’opera, secondo una testimonianza dell’amico Cecioni, piacque molto per la soluzione artistica dove la macchia scura presenta la figura al di dentro della finestra con il sole al di fuori.
Qui la donna è sola, nella pace della sua abitazione, a favore della luce naturale che entra da una finestra spalancata. Il gesto è quello consueto del capo chino e delle mani intente a infilare nella cruna dell’ago il filo da cucito. La tela fu acquistata dal principe di Carignano che amava molto lo stile dei macchiaioli e che creò una raccolta privata a loro dedicata. Si racconta anche che la donna raffigurata fosse la marchesa Matilde Bartolommei, moglie di Ferdinando Bartolommei, figura di spicco del Risorgimento toscano.
Sono moltissimi gli esempi di donne che un pennello ha fissato nell’atto di impugnare un ago. Non solo un modo per onorare un mestiere antico, prezioso e a volte “politico”, ma anche la dimostrazione – se ancora ce ne fosse bisogno – della stretta connessione (e non certo differenza!) fra pennello ed ago.
Come dice Giorgio Caproni nella sua poesia “La ricamatrice”, l’ago non è distinto dall’estro. E la stessa cosa vale per il pennello. Ed entrambi richiedono, inoltre, forza, energia, abilità.
Com’era acuto l’ago
e agile e fine l’estro!
Raccolta entro quel vago
bianco odore di fresco
lino, oh il ricamare
abile come la spuma
trasparente del mare.
Nel sole era il cantare,
candido, d’un canarino.
Vedevi il capo chino
(e acre) strappare
coi denti la gugliata
nuova per ricominciare.
Livorno tutta intorno
com’era ventilata!
Come sapeva di mare
sapendo il suo lavorare!