[Report] Officina di dicembre 2024

L’indagine intorno all’invisibile prosegue addentrandosi nella profondità dell’individuo, fino a toccare l’elemento immateriale per eccellenza: l’anima. Che sia intesa come essenza metafisica di una personalità, come spirito, come motore dell’azione, come espressione di sentimenti ed emozioni, l’anima rimane misteriosa e di difficile intellegibilità. Per tale ragione ogni discorso sull’anima richiederebbe cautela, premesse, distinguo. Sarebbe forse necessario un inquadramento filosofico e teologico, comunque condannato a lasciare nell’interlocutore una sensazione di incompletezza e insoddisfazione.

Pertanto, l’Officina si è svolta con un approccio completamente differente, secondo lo stile che caratterizza, ormai da anni, gli incontri di BombaCarta. I singoli interventi hanno dunque preso di petto l’argomento, cercando di svolgere, di volta in volta, una riflessione personale su quel che un tema così grande come l’anima trasmette a ciascuno di noi, lasciandoci ispirare, come sempre, dall’esperienza artistica e creativa.

Mariavittoria

Nell’iniziare l’Officina di oggi, assumiamo innanzitutto che l’anima esista. Ripercorrendo quando già evidenziato dall’editoriale, in particolare l’etimologia della parola anima, viene immediato soffermarsi sulla frase di Memorie di Adriano di Marguerite Yourcenar: “Animula vagula blandula“. Il significato e lo spirito con cui l’imperatore Adriano racconta della sua fedele compagna di viaggio fino alla fine, verranno successivamente affrontate in uno degli interventi successivi.

Nel film d’animazione “SOUL“, si può notare come, trascendendo dalla fisicità, l’anima sia qualcosa che ci spinge, che ci agita, che ci sprona ad andare avanti, racchiudendo la vera parte di noi, l’essenza dei nostri desideri. Rimanendo sempre sul lato cinematografico, sono stati citati i dissennatori della saga di “Harry Potter”. Creature senz’anima che hanno come scopo quella di nutrirsi dell’anima degli altri, trasformando così un essere vivente in un guscio vuoto. Infatti, è l’anima che riempie e completa il corpo rendendo l’essere umano una persona.

Ed è proprio dell’incontro tra persone – o anime – quello di cui parla Victor Hugo nella sua poesia:

Quando due anime
che si sono cercate tanto a lungo
nella folla, si sono finalmente trovate,
quando si sono accorte
di essere ben sortite,
in sintonia e compatibili,
in una parola, di essere simili,
allora si stabilisce per sempre, tra di loro,
un’unione ardente e pura come esse sono,
un’unione che comincia sulla terra
e continua per sempre nel cielo.
Questa unione è amore, vero amore,
come in verità pochissimi uomini
riescono a concepire.

L’amore come incontro tra due anime è allo stesso tempo trovarsi ma anche riconoscersi. Così come dice questa frase:

Arrivando alla fine di questa introduzione è giusto negare l’ipotesi fatta all’inizio: e se l’anima non esistesse?

Valeria

E se l’anima non esistesse?
L’anima è un fenomeno non osservabile, di natura veramente invisibile; quindi, la sua esistenza non può essere in nessun modo provata. Ma se non c’è anima, allora cosa siamo noi?


In questa scena tratta dal videogioco Wolfenstein: new order, Tekla assimila noi, la nostra coscienza, come processi elettrochimici, negando l’esistenza dell’anima e riducendo l’individuo alla sua corporalità, a ciò che può essere osservato e provato.
In Fullmetal alchemist: brotherhood, nell’episodio 9 “Ricordi artificiali” Alphonse (un personaggio che ha perso il suo corpo, e la cui anima è stata legata a un’armatura per permettergli di continuare a “vivere”) dubita della sua stessa esistenza, della sua identità e di tutte le persone a lui care.
Al contrario di Tekla che può identificare sé stessa con le funzioni del suo corpo, Alphonse non ha nulla se non ricordi a dirgli chi è, ricordi che potrebbero essere stati fabbricati, e quindi non reali.
L’unica risposta a questo dilemma alla fine è semplicemente una: Alphonse decide di fidarsi.
L’anima è un fenomeno non osservabile, non può essere provata la sua esistenza, ma ciò vale anche per la sua inesistenza.
Quindi forse la scelta migliore da fare è fidarsi che esista.

Greta

Parlando di anima sembra imprescindibile parlare anche di corpo. Abbiamo esplorato il rapporto tra loro partendo da una scena del film Prendimi l’anima, che racconta la storia di Sabina Spielrein e Carl Gustav Jung. Spielrein, che diventerà una pioniera della psicoanalisi, conosce Jung da paziente, in quanto affetta da una grave malattia psichica.

Un forte dolore a volte scinde l’anima e il corpo. È quanto avviene a Ibrahima Balde in Fratellino, libro che racconta il suo viaggio alla ricerca del fratello più piccolo, dalla Guinea fino l’Europa:

Ho iniziato a scuotere un cartone e il mio spirito ha preso il volo. Quando il tuo spirito prende il volo è molto difficile trattenerlo. “Prima ho perso mio padre a Conakry, adesso mio fratello piccolo in Libia, come potrò spiegare tutto questo a mia madre?”

Alla fine il mio spirito è tornato, poco a poco, al suo posto. Ho pensato che centoquarantaquattro persone su un gommone sono troppe. “Sì, non è possibile.” Sono andato da un amico e gli ho chiesto: “Mon frère,secondo te è possibile che su un gommone ci stiano centoquarantaquattro persone?”. “Ibrahima,” mi ha risposto, “questo non è niente. In Libia puoi vedere anche centottanta persone su un gommone, ça c’est tout à fait normal.” “Oke,” gli ho detto e ho preso la fotografia dalla tasca. “Adesso dimmi la verità. Tu sei a Sabratha da molti mesi, hai conosciuto questo bambino?” È rimasto a guardare a lungo, prima la fotografia, poi me. E ha pensato molto prima di parlare. “No,” mi ha risposto, “non lo conosco.”

Ti ho detto del mal di pancia. Anche quella è un’avventura, e io so cos’è.

Il mal di pancia non era iniziato a Nador, mi accompagnava già dall’Algeria. Non avevo mai provato un dolore simile da quando ero nato, e pensavo: “Quest’uomo non dura molto”. Quando dico uomo, quell’uomo sono io, e anche il dolore sono io, dalla testa ai piedi. Ma soprattutto la pancia, dal petto fino alle gambe. Come se tu mi stringessi le budella con una tenaglia.

[…] Quando hai un dolore nel corpo, questo chiude le altre ferite e te le fa dimenticare. Io sapevo che, se mi passava il mal di pancia, un altro dolore mi avrebbe attaccato. “Alhassane, miñan.” Ma per quel dolore non c’è nessuna pianta del bosco. 

Nell’Ottocento si credeva che la fotografia fosse un mezzo che permettesse di scandagliare l’anima, soprattutto quando si trattava di persone affette da malattie mentali, e quindi con profonde ferite nell’anima. Molti manicomi erano forniti di laboratori fotografici dove venivano sviluppati i ritratti dei pazienti

La fotografia divenne presto uno strumento carico di un significato magico. Si credeva che in un ritratto non solo si potesse cogliere l’anima, ma che in qualche modo l’atto di fotografare potesse portare via una parte di essa, come racconta Felix Nadar in Quando ero fotografo:

Secondo Balzac, ogni corpo in natura è composto da serie di spettri, in strati sovrapposti all’infinito, stratificati in membrane infinitesimali, in tutti i sensi in cui si attua la percezione ottica.

Non essendo consentito all’uomo di creare – ovvero di fare dal nulla una cosa – ogni operazione fotografica interveniva a rivelare, distaccava e tratteneva, annettendoselo, uno degli strati del corpo fotografato. Ne derivava per detto corpo, a ogni operazione ripetuta, l’evidente perdita di uno dei suoi spettri, ossia di una parte fondamentale della sua essenza costitutiva.

E forse ciò che si credeva in passato ha continuato a essere sentito lungo gli anni. La storia della celebre fotografia di Winston Churchill sembra dirci che la vera fotografia, a volte in modi inaspettati, riesce a catturare qualcosa di profondo, anche di chi cerca di celarsi al mondo intero.

Nel 1941 Churchill visita Ottawa e Yousuf Karsh viene incaricato di scattare un ritratto. Però Churchill non è stato avvertito e quando il Primo Ministro canadese lo introduce al set non la prende con entusiasmo.

“Cos’è questa cosa? Cos’è?”, grugnisce contrariato. Nel gelo dello staff, Karsh si presenta spiegando che vorrebbe celebrare l’evento con un ritratto: Churchill si accende un sigaro e si arrende a “una sola” foto.

Il problema è che, nonostante un portacenere discretamente offerto per far sparire il sigaro, Churchill continua a masticarlo rumorosamente.

Karsh controlla e ricontrolla inquadratura e luci, ma il sigaro rimane lì a dar noia.

Karsh agisce d’impulso: si avvicina, chiede scusa in modo rispettoso ma decisamente fermo e strappa il sigaro dalla bocca di Churchill come si farebbe col cuccio di un bambino capriccioso.

Tornato alla macchina, scatta uno dei ritratti più famosi dello statista inglese – quello di un uomo determinato, minaccioso, pronto all’azione. O, più semplicemente, quello di un uomo cui è stato appena strappato il sigaro.

Margherita

L’intervento affronta il tema del rapporto tra persona-personaggio e anima, soprattutto quando in forma di dialogo, a partire dalle ultime righe di Memorie di Adriano, di Marguerite Yourcenar:

Piccola anima smarrita e soave, compagna e ospite del corpo, ora t’appresti a scendere in luoghi incolori, ardui e spogli, ove non avrai più gli svaghi consueti. Un istante ancora, guardiamo insieme le rive familiari, le cose che certamente non vedremo mai più… cerchiamo d’entrare nella morte a occhi aperti…

In queste ultime frasi del romanzo, l’imperatore Adriano parla dolcemente con la sua anima, compagna fedele con cui sta per affrontare l’ultimo viaggio.

Adriano non è l’unico esempio di personaggio che, in punto di morte, parla con la propria anima, per cercare supporto o risposte. È il caso, infatti, anche di Ivan Il’ic, protagonista del racconto La morte di Ivan Il’ic di Tolstoj. Lo sventurato Ivan si trova bloccato a letto dopo un banale incidente domestico, ma le sue condizioni peggiorano progressivamente, finché non diventa chiaro che non si riprenderà. All’apice della sua sofferenza – anche e soprattutto esistenziale – chiede alla sua anima: perché? Questa, però, non ha risposte da offrire.

L’ultima parte dell’intervento è tratta da The Host di Stephanie Meyer. In questo romanzo di fantascienza, degli alieni hanno colonizzato la terra impiantandosi nei corpi degli esseri umani. Queste creature si fanno chiamare “anime”. Una volta preso possesso del corpo di un essere umano, “l’anima” dovrebbe averne il controllo totale e la coscienza dell’umano dovrebbe svanire. Ma nel caso della protagonista del romanzo, Mel, quando “un’anima” le viene impiantata nel collo, la sua coscienza non scompare. Per tutto il romanzo, dunque, l’anima e Mel sono costrette ad un confronto/scontro, dovendo convivere nello stesso corpo, fino a creare un legame fortissimo. 

Luca

IN(ANIMA)TA

Solitamente i personaggi immaginari non umani, ma creati artificialmente (Data di Star Trek, Wall-E, la Visione degli Avengers, i Transformers, i robot di Isaac Asimov per fare degli esempi) hanno sempre una sorta di umanità (un’anima artificiale o qualcosa di simile) che talvolta viene tacitamente giustificata da scenari scientificamente evoluti e futuristici, talvolta attraverso background worldbuilding approfonditi… questo perché senza umanità difficilmente si potrebbe dare un profilo interessante ad un personaggio altrimenti privo di passioni, sentimenti e conflitti. Questo quid che ricorda l’anima delle creature viventi è un lasciapassare… per creare una storia.

Per Pinocchio, diventare un bambino vero è una quest molto intima che, nella versione di Guillermo del Toro (2022), lo porta a paragonarsi ad un crocefisso e a domandarsi innocentemente come mai tutti amino quel crocefisso di legno mentre per lui, sempre di legno, non provino che disprezzo.

Questo ci porta a chiederci, ma allora gli oggetti possono avere anch’essi un’anima? Abbiamo letto un estratto da Gli amanti del cielo di Murata Sayaka nel quale il punto di vista è quello di una tenda appesa nella stanza della piccola Naoko che “il protagonista” vede crescere anno dopo anno.

Rimanendo sempre in Giappone, citando un brano da Wa, la via giapponese all’armonia di Laura Imani Messina, abbiamo scoperto la credenza folkloristica degli tsukumogami secondo la quale:

le cose che vivono un centinaio d’anni diventino una sorta di deità. Cento anni è quanto basta a un oggetto per acquisire un’anima, perché esso assorbe il tempo che passa e la saggezza che ne deriva.

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