[Report] Officina di maggio 2025

Nella ricerca dell’invisibilità che ha caratterizzato la stagione di BombaCarta 2024/2025 ci siamo imbattuti in aria e acqua, due elementi che si intrecciano profondamente con il tema dell’anno. In primo luogo, infatti, aria e acqua – pur essendo intorno a noi e fondamentali per la nostra esistenza – sono elementi non sempre facilmente percepibili, soprattutto a causa della loro trasparenza. Sono altresì elementi dei quali tendiamo a renderci conto soprattutto nel momento della loro assenza: pensiamo al venir meno del respiro o all’esigenza della sete.
Sono, infine, elementi soggetti a trasformazioni, in continuo cambiamento, che in determinati momenti possono a loro volta celare, rendere invisibili forme e oggetti. Si tratta quindi di approfondire una doppia invisibilità di aria e acqua, nel senso di caratteristica propria così come di ciò che si trova nascosto al loro interno.
Cecilia
Come l’aria in Ode to the West Wind di Shelley, anche l’acqua può rappresentare la spinta, la forza, l’essenza stessa della natura che ci circonda e che ci anima. In The Good Place uno dei protagonisti, Chidi, usa il mare come metafora del Tutto in cui si dissolve l’essere umano dopo la morte, come se l’individuo non fosse che una manifestazione di una realtà più grande che soggiace all’esistenza.
Ma l’acqua ha assunto valenze molteplici nelle leggende e nelle mitologie di ogni tempo: c’è l’acqua del fiume Lete, che cancella i ricordi della vita passata nell’Aldilà pagano di Platone e che purifica le anime dopo la morte in quello cristiano di Dante, c’è l’acqua-specchio in cui si riflette Narciso, che seppur trasparente impedisce la vista della profondità del proprio vero Io e della realtà, c’è l’acqua del mare che guida il viaggio dell’umanità verso la scoperta, come accade a Ulisse, Enea e agli Argonauti.
In tempi più recenti, con l’invenzione degli aeroplani, anche l’aria è diventata nell’immaginario collettivo mezzo di “trasporto” e di via di collegamento, proprio come l’acqua. Luis Sepúlveda nel romanzo Storia di una gabbianella e del gatto che le insegnò a volare racconta dei tentativi del gatto Zorba di far capire a Fortunata, un pulcino di gabbiano, come sollevarsi in volo. Dopo molti fallimenti, disperato, Zorba chiede consiglio e aiuto a un poeta.
«Puoi aiutarci?» domandò Zorba dopo aver concluso il suo racconto.
«Credo di sì. E questa notte stessa» rispose l’umano.
«Questa notte stessa? Ne sei sicuro?» chiese conferma Zorba.
«Guarda fuori dalla finestra, gatto. Guarda il cielo. Cosa vedi?» lo esortò l’umano.
«Nuvole. Nuvole nere. Si avvicina un temporale e molto presto pioverà» osservò Zorba.
«Ecco perché» disse l’umano.
«Non capisco. Mi dispiace, ma non capisco» si scusò Zorba.
Allora l’umano andò alla sua scrivania prese un libro e cercò tra le pagine.
«Ascolta, gatto. Ti leggerò una cosa di un poeta che si chiama Bernardo Atxaga. Dei versi di una poesia intitolata I gabbiani:
Ma il loro piccolo cuore-
lo stesso degli equilibristi –
per nulla sospira tanto
come per quella pioggia sciocca
che quasi sempre porta il vento,
che quasi sempre porta il sole»
«Capisco. Ero sicuro che potevi aiutarci» miagolò Zorba saltando giù dalla poltrona.
Zorba intuisce che l’unico modo per insegnare a Fortunata a volare è farle ricordare che la sua natura stessa appartiene al vento, alla pioggia e al sole.
«Ora volerai, Fortunata. Respira. Senti la pioggia. È acqua. Nella tua vita avrai molti motivi per essere felice, uno di questi si chiama acqua, un altro si chiama vento, un altro ancora si chiama sole e arriva sempre come una ricompensa dopo la pioggia. Senti la pioggia. Apri le ali» miagolò Zorba.
La gabbianella spiegò le ali. I riflettori la inondavano di luce e la pioggia le copriva di perle le piume. L’umano e il gatto la videro sollevare la testa con gli occhi chiusi.
«La pioggia. L’acqua. Mi piace!» stridette.
«Ora volerai» miagolò Zorba.
«Ti voglio bene. Sei un gatto molto buono» stridette Fortunata avvicinandosi al bordo della balaustra.
«Ora volerai. Il cielo sarà tutto tuo» miagolò Zorba.
Valerio
Se aria e acqua sono stati da sempre elementi ben noti all’uomo, che sin dall’antichità ne ha colto la fondamentale importanza per la propria esistenza (si pensi a Talete e Anassimene che individuavano, rispettivamente, nell’acqua e nell’aria l’ἀρχή, ossia il principio di tutte le cose), la loro rappresentazione figurativa ha costituito spesso una sfida. La trasparenza di tali elementi infatti ha sempre reso difficile una resa pittorica e, in tale direzione, è particolarmente stimolante osservare l’evoluzione artistica nella raffigurazione di due apparenti invisibilità come quelle di aria e acqua (dai papiri dell’antico Egitto alla tomba del tuffatore di Paestum, dall’arazzo di Bayeux ai capolavori rinascimentali di Piero della Francesca e Botticelli, fino alla potenza di Turner e alle impressioni di Monet).

Al contempo, aria e acqua possono rendere invisibile ciò che si nasconde al proprio interno: è questo il caso dello squalo di Spielberg o dei mostri nella nebbia di The Mist. Eppure, come si cela si può anche mostrare qualcosa di ulteriore, in special modo nelle situazioni di crisi, e non a caso in The Mist il sopraggiungere della nebbia rivela la reale essenza degli individui asserragliati nel supermercato. Allo stesso modo il verificarsi di due speculari condizioni di catastrofe che riguardano da vicino aria e acqua, ossia la tempesta e la bonaccia, mostrano la natura degli uomini coinvolti.
Che succede a volte nelle tempeste, eh, ‘Ndrja, che succede? Succede che alla fine la chiumma si dichiara vinta, tutti piegano il collo e da quel momento, di momento in momento, aspettano solamente l’ondata che li annegherà. Però, quando l’ondata che pare mortale arriva, ed è un cavallone d’acqua e di vento che fischia e schiumeggia, alzato con le zampe per aria sopra la chiumma e ogni uomo già si speranza di mondo e si rincunea sotto, mentre il terribile cavallone si sdirupa sopra, li sconfonde, acceca e come per sempre gli leva il respiro, e tutti, inghiottendo acqua pensano: affogai, in quest’ultimo istante succede però, che il cavallone si ritira, la barca torna all’aria e ogni uomo cerca allora con gli occhi il compagno vicino, si contano l’uno con l’altro se ci sono tutti e, poi, subito, c’è chi ripiglia il timone, chi rimpugna il suo remo, chi svuota la barca dell’acqua imbarcata.
Insomma, dopo quel terribile istante in cui vedettero la morte con gli occhi, fanno come avessero deciso di non arrendersi, e si direbbe che proprio lei, la morte vista con gli occhi, gli avesse ribellato il vivere che prima della morte, essi stessi, col loro scoraggiamento, avevano ormai mortificato: avanti, forza, sursincorda.
Si spronano allora gli uomini in periglio. Vediamo quel è la situazione, vediamo se è proprio disperata o se ci possiamo mettere rimedio, vediamo, vediamo, se c’è modo d’uscirne. E se non era scritto che uscissimo, si scriva, se non altro, che ci ribellammo, e che maniammo, non solamente, maniammo d’ogni modo e maniera, smaniammo per potercela scapolare, e che la morte non ci pigliò a collo chino, con le mani al petto a dirci le preghierelle. Capisti, ‘Ndrja?
Allo slancio disperato e vitalistico rappresentato in Horcynus Horca di D’Arrigo fa da contraltare lo stato di abbandono mortifero dei marinai durante la bonaccia, perfettamente narrato da Coleridge ne La ballata del vecchio marinaio:
A un tratto, il vento cessò, e cadder le vele;
fu una desolazione ineffabile;
si parlava soltanto per rompere
il silenzio del mare.
Solitario in un soffocante cielo di rame,
il sole sanguigno, a mezzogiorno,
pendeva diritto sull’albero maestro,
non più grande della luna.
Giorno dopo giorno, giorno dopo giorno,
restammo impietriti, non un alito, non un moto;
inerti come una nave dipinta
sopra un oceano dipinto.
Acqua, acqua, in ogni dove;
e l’intavolato della nave strideva;
acqua, acqua, in ogni dove;
e non una goccia da bere.
Il mare stesso si putrefece: O Cristo!
Che ciò potesse davvero accadere?
Sì; delle cose viscose strisciavano sulle gambe
sopra un mare viscoso.
Se aria e acqua possono di volta in volta nascondere e mostrare il vero, una particolare composizione di Chopin – il Preludio op. 28 n. 15, anche detto La goccia – nel tentare di riprodurre la dinamica di un temporale, dietro al canto più immediatamente percepibile, nasconde una nota che si ripete durante tutto il brano. Ecco l’interpretazione che ne offre Luigi Giussani ne L’autocoscienza del cosmo:
Avevo sentito decine e decine di volte La goccia di Chopin, perché piaceva molto a mio padre. E anche a me, man mano che diventavo grande – nove anni, dieci anni… -, è incominciato a piacere, perché la melodia in primo piano è facile a intendersi ed è molto gradevole. Il primo ascolto del pezzo mi imponeva la suggestività della musica in primo piano. Ma dopo decine e decine di volte che lo avevo ascoltato, una volta, mentre ero seduto in sala, mio papà mise su ancora questo pezzo: improvvisamente ho capito che non avevo compreso niente di quello che era “la goccia”.
Infatti, il vero tema del pezzo non era la musica in primo piano, quella melodia immediata, tenera e suggestiva. Non era l’ascolto istintivo del pezzo che faceva emergere la sua verità: il suo significato vero era una cosa apparentemente monotona, tanto monotona da ridursi a una nota sola che si ripete continuamente, con qualche leggera variazione, dal principio alla fine.
Ma quando un uomo s’accorge di questa nota, è come se il resto passasse ai margini, diventasse come la cornice di un quadro: il quadro è fatto tutto solo di questa nota che diventa come una fissazione, e l’io, dal principio alla fine, è come percosso continuamente da questo sentimento dominante. Quel giorno ho capito, senza poterlo pronunciare in discorso, ho intuito di che si trattava. Ho detto a me stesso: «Così è la vita!». (…)
Quella è la nota che dal principio alla fine domina e decide del significato di tutto il brano di Chopin, che decide dal principio alla fine cos’è la vita dell’uomo: sete di felicità. Qualunque cosa ti piaccia, ti attiri e desideri, al momento ti fa lieto, ma subito dopo passa. Eppure c’è una nota che rimane intatta, con qualche leggera mutazione, ma dal principio alla fine rimane intatta nella sua profondità e, nella sua semplicità assoluta, nella sua univocità, domina tutta la vita: la sete di felicità.
Quella è la nota della vita, mi accompagna come il pensiero mio: se lo tirassi via, la vita non avrebbe più dignità. La fantasia di colori e di forme in cui la vita si esprime diventerebbe una cesta di stracci, senza origine, scopo, significato.
Ecco compiuto questo tentativo di percorso intorno ad aria e acqua: dal principio di tutte le cose in Talete e Anassimene alla nota ‘monotona’ di Chopin, principio primo della nostra esistenza.
Luca
L’intervento prende le mosse dal fumetto Sub-Mariner Abissi (Peter Milligan, Esad Ribic, 2008): una storia Marvel fuori continuity, ambientata nelle profondità dell’oceano a bordo di un sottomarino alla ricerca di una leggenda, la città di Atlantide. Peter Milligan sceneggia uno scontro tra la scienza che pretende prove concrete, verificabili e la superstizione con le sue suggestioni irrazionali. Esad Ribic dipinge gli abissi del titolo con un nero fitto e compatto. Non ci mostra, nasconde e tutto ciò che la scienza non può spiegare rimane invisibile, almeno fino a quando non sceglie di rivelarsi…
Nella poesia Cigola la carrucola del pozzo (da Ossi di seppia, Eugenio Montale,1925) l’acqua di un pozzo custodisce metaforicamente una immagine, un ricordo che, come l’acqua stessa però, trema, vibra e muta. Non può essere uguale a ciò che vorrebbe rievocare. La memoria sfugge, i ricordi diventano qualcos’altro che non riusciamo a riconoscere. Per Montale non è possibile riuscire a “vedere” nuovamente il passato, ma solo tremolanti echi di questo. Come ne è affiorata, l’immagine ritorna nel fondo del pozzo, si sottrae definitivamente alla vista trascinata nell’oscurità.
Cigola la carrucola del pozzo,
l’acqua sale alla luce e vi si fonde.
Trema un ricordo nel ricolmo secchio,
nel puro cerchio un’immagine ride.
Accosto il volto ad evanescenti labbri:
si deforma il passato, si fa vecchio,
appartiene ad un altro…
Ah che già stride
la ruota, ti ridona all’atro fondo,
visione, una distanza ci divide.
Paolo
Dove ci troviamo in questo momento?
“Su una sedia”, dice qualcuno. “In una stanza”, risponde qualcun altro. “A Villa Malta”, “a BombaCarta”… le voci si susseguono.
La prospettiva presto cambia e si amplia: “in un palazzo – a Roma – in Italia – sulla terraferma – nello spazio”.
Ognuna di queste risposte è corretta, ma ce n’è una “più corretta” delle altre (o meglio, più adatta ad affrontare il tema di oggi): sulla terraferma.
La nostra esperienza di vita – a parte quando viaggiamo o in pochi casi particolari – è confinata sulla terraferma. Per quanto invisibili, aria e acqua sono un limite al di sopra e intorno a noi.
Non ci sorprende che, per dare un nome al nostro pianeta, abbiamo scelto proprio l’elemento che ci sostiene ogni giorno: Terra, semplicemente nobilitandolo con un’iniziale maiuscola.
La sorpresa, però, dovrebbe coglierci – e in effetti ci ha colto – nel 1972.
Nel dicembre di quell’anno, tre astronauti a bordo della missione Apollo 17, in viaggio verso la Luna, hanno volto lo sguardo alle loro spalle, scattando una foto che diventerà famosa come The Blue Marble (“La biglia blu”).

E, in effetti, la nostra Terra, vista dallo spazio, quasi vorrebbe farsi chiamare Pianeta Acqua. Da questa prospettiva privilegiata, gli elementi che risaltano sono soprattutto gli oceani e le nubi. Aria e acqua, così invisibili e trasparenti da vicino, si fanno protagoniste, lasciando alla nostra sicura, amata terraferma quasi un ruolo secondario.
A questo punto, con un po’ di licenza poetica rispetto al nostro tema legato all’aria, allarghiamo ancora la prospettiva e spostiamoci ancora più lontano nello spazio.

Questa foto è stata scattata il 14 febbraio 1990 dalla sonda Voyager 1, ormai ben avviata nel suo viaggio ai confini del Sistema Solare.
In questa immagine, tra delle bande colorate che ci interessano poco, c’è in realtà un microscopico dettaglio che, per noi, è di enorme importanza.
È facile farselo sfuggire, quindi guardiamo questa immagine un po’ più da vicino.
Lì, nella banda gialla sulla destra, c’è un singolo pixel: quell’unico pixel è il nostro pianeta Terra (ancora una volta, bluastro).

Questo scatto si chiama “Pale Blue Dot“ (“Pallido Puntino Blu”), ed è stato fortemente voluto da Carl Sagan, pioniere dell’astrofisica e dell’esplorazione spaziale.
E proprio le sue parole sono il miglior modo per commentare questa immagine:
Da questo distante punto di osservazione, la Terra può non sembrare di particolare interesse. Ma per noi, è diverso. Guardate ancora quel puntino. È qui. È casa. È noi. Su di esso, tutti coloro che amate, tutti coloro che conoscete, tutti coloro di cui avete mai sentito parlare, ogni essere umano che sia mai esistito ha vissuto la propria vita.
L’insieme delle nostre gioie e dolori, migliaia di religioni, ideologie e dottrine economiche così sicure di sé, ogni cacciatore e raccoglitore, ogni eroe e codardo, ogni creatore e distruttore di civiltà, ogni re e plebeo, ogni giovane coppia innamorata, ogni madre e padre, figlio speranzoso, inventore ed esploratore, ogni predicatore di moralità, ogni politico corrotto, ogni “superstar”, ogni “comandante supremo”, ogni santo e peccatore nella storia della nostra specie è vissuto lì, su un minuscolo granello di polvere sospeso in un raggio di sole.
La Terra è un piccolissimo palco in una vasta arena cosmica. Pensate ai fiumi di sangue versati da tutti quei generali e imperatori affinché, nella gloria e nel trionfo, potessero diventare per un momento padroni di una frazione di un puntino. Pensate alle crudeltà senza fine inflitte dagli abitanti di un angolo di questo pixel agli abitanti scarsamente distinguibili di qualche altro angolo: quanto frequenti le incomprensioni, quanto smaniosi di uccidersi a vicenda, quanto fervente il loro odio. Le nostre ostentazioni, la nostra immaginaria autostima, l’illusione che abbiamo una qualche posizione privilegiata nell’universo sono messe in discussione da questo punto di luce pallida.
Il nostro pianeta è un granellino solitario nel grande, avvolgente buio cosmico. Nella nostra oscurità, in tutta questa vastità, non c’è alcuna indicazione che possa giungere aiuto da qualche altra parte per salvarci da noi stessi.
La Terra è l’unico mondo conosciuto che possa ospitare la vita. Non c’è altro posto, per lo meno nel futuro prossimo, dove la nostra specie possa migrare. Visitare, sì. Colonizzare, non ancora. Che ci piaccia o no, per il momento la Terra è dove ci giochiamo le nostre carte. È stato detto che l’astronomia è un’esperienza di umiltà e che forma il carattere. Non c’è forse migliore dimostrazione della follia delle vanità umane che questa distante immagine del nostro minuscolo mondo.
Per me, sottolinea la nostra responsabilità di occuparci più gentilmente l’uno dell’altro, e di preservare e proteggere il pallido punto blu, l’unica casa che abbiamo mai conosciuto.
Siamo partiti dall’invisibile, e con questa prospettiva torniamo all’invisibile: al nostro pianeta, così carico di vita e così prezioso, ma così piccolo e difficile perfino da notare rispetto alla vastità dello spazio.
Quindi, dove ci troviamo in questo momento?
Margherita
Nel corso dell’intervento si analizza l’opera della fotografa Nikki Lee, a partire dagli scatti raccolti sotto il nome di Projects. Per realizzare queste immagini – tra il 1997 e il 2001 – la fotografa frequentava per alcuni mesi un determinato gruppo di persone – la comunità latinoamericana per l’Hispanic Project, un gruppo di anziani per il Seniors Project, l’ambiente Hip Hop per l’Hip Hop Project, e così via. Non forniva mai la propria vera identità e viveva quei mesi immedesimandosi totalmente nel gruppo che aveva scelto, prendendone le sembianza anche fisicamente. Nelle foto, così, Nikki si mimetizza fino quasi a sparire. La sua identità diviene fluida, proprio come l’acqua, che prende la forma del contenitore in cui si trova.
Mariavittoria
Fisicamente parlando, l’aria e l’acqua sono fluidi quindi non hanno una forma propria. La loro tendenza è quella di prendere la forma del contenitore o dello spazio in cui si trovano. Non hanno forma, sono invisibili ma non sono “niente”.
Se provate a mettere un palloncino dentro ad una bottiglia vuota e a gonfiarlo, non ci riuscirete, mentre se fate un piccolo foro nella bottiglia sì. Questo perché nel primo caso la bottiglia è già piena d’aria e non potete introdurne altra, mentre le secondo caso quando gonfiamo il palloncino, questo sposta l’aria fuori dalla bottiglia.
Quindi questi fluidi occupano un vero e proprio spazio.

“Nel 1959 ho preparato una serie di 45 “corpi d’aria” (sculture pneumatiche) del diametro massimo di cm 80 (altezza, colla base cm 120); l’acquirente, qualora lo voglia, può acquistare, oltre all’involucro ed alla base (chiusi in apposito piccolo astuccio) anche il mio fiato, da conservare nell’involucro stesso.“
Piero Manzoni realizza i suoi Corpi d’aria tra il 1959 e il 1960 che fanno parte di un progetto più ampio chiamato Fiato d’artista. Manzoni realizzò ben 45 copie vendute poi a 30.000 lire ciascuna: ogni opera comprendeva, generalmente, una scatola, un treppiede, un pallone sgonfiato e un boccaglio. I palloncini venivano gonfiati dall’artista stesso in presenza del compratore, includendo così anche l’esecuzione stessa dell’opera e il prezzo dell’oggetto variava in base alla quantità di fiato immessa.
Il cambiamento della quantità d’aria non va solo ad incidere sul prezzo delle opere di Manzoni, ma, come sanno bene i marinai, può arenarci oppure farci avanzare.
Nel brano Trieste, Lucio Corsi parla proprio di come l’aria, o meglio, il vento, possa essere una spinta anche se, nei giorni di bonaccia, può essere scambiata per un freno.
Il vento no, non era un freno ma una spinta
Utile per tenere le nuvole in viaggio
Per chi è fermo e non trova il coraggio
Vento che spinge sia le barche che gli uomini
Se non riescono a muoversi.

Non solo il vento ma anche l’acqua può rivelarsi uno strumento di cambiamento e lo sanno bene i protagonisti dell’anime Ranma 1/2 di Rumiko Takahashi. Cadere nelle sorgenti maledette renderà i malcapitati perennemente soggetti al cambio d’identità ogni qual volta vengano bagnati. Possono trasformarsi in un animale oppure cambiare genere.
Acque di Francesco Guccini che si dimostra essere una vera e propria fenomenologia dell’acqua. In realtà, quando è a contatto con una superficie, l’acqua lascia una traccia, in qualche modo si mostra quando viene a contatto con il mondo: se gettata a terra può ravvivare i colori delle superfici, rende il terreno più morbido, oppure se ristagna, la pozzanghera può regalare un gioco di riflessi e specchi di quello che la circonda.
La sua invisibilità ci dà una nuova visione del paesaggio nonché un modo per capirlo meglio, basta pensare alla profondità che può essere vista grazie a masse d’acqua che via via si accumulano.
A regalarci due poesie sulla natura molteplice dell’acqua sono due grandi autori: D’Annunzio ed Eraclito.
Acqua di monte,
acqua di fonte,
acqua piovana,
acqua sovrana,
acqua che odo,
acqua che lodo,
acqua che squilli,
acqua che brilli,
acqua che canti e piangi,
acqua che ridi e muggi.
Tu sei la vita
e sempre sempre fuggi.
E dai Frammenti di Eraclito:
Dalla terra nasce l’acqua
dall’acqua nasce l’anima…
E’ fiume, è mare, è lago, stagno,
ghiaccio e quant’altro…
è dolce, salata, salmastra,
è luogo presso cui ci si ferma e
su cui si viaggia,
è piacere e paura,
nemica ed amica,
è confine ed infinito,
è cambiamento e immutabilità,
ricordo ed oblio.
Proprio da quest’ultima parola, “oblio”, leggiamo un estratto delle lezioni di Michel Foucault.
L’acqua, nel mondo morale del manicomio, riconduce alla nuda verità; essa è violentemente lustrale: battesimo e confessione al tempo stesso, poiché riconducendo il malato al periodo precedente la caduta lo costringe a riconoscersi per quello che egli è. L’acqua costringe la follia a confessare, follia che, a quest’epoca, è credenza senza confessione. Rendendo la coscienza trasparente a se stessa, funziona come un’abluzione religiosa e come una tragedia.
Si dirà che esagero. Leggete questo dialogo sotto la doccia fra Leuret e uno dei suoi pazienti affetto da delirio persecutorio con allucinazioni uditive. E lo stesso Leuret a riportarlo:
LEURET: Promettete di non pensarci più?
Il malato si arrende a fatica.
LEURET: Promettete di lavorare tutti i giorni?
Esita, poi accetta.
LEURET: Visto che non mi fido delle vostre promesse, avrete la doccia, e continueremo tutti i giorni finché non sarete voi a chiedere di lavorare (doccia).
LEURET: Andrete a lavorare oggi?
A: Visto che mi si costringe, dovrò ben farlo!
LEURET: Lo farete volentieri, sì o no?
Esitazione (doccia).
A: Sì, andrò a lavorare!
LEURET: Quindi voi eravate pazzo?
A: No, non ero pazzo.
LEURET: Voi non eravate pazzo?
A: Credo di no (doccia).
LEURET: Eravate pazzo?
A: Vedere e sentire è quindi essere pazzi?
LEURET: Sì!
A: Allora, signore, è pazzia.
Promette di andare a lavorare.
Non è sorprendente riconoscere in quest’acqua persecutoria l’elemento nel quale il malato e il medico scambiano il loro linguaggio? Il loro dialogo tra sordi e un dialogo tra annegati, o meglio un dialogo tra annegato e annegatore. Le parole che vanno dalla ragione alla disragione e da questa a quella non sono portate dall’aria ma dalla violenza di questa corrente d’acqua ghiacciata. Il pazzo, questo gran pesce scrollato, cui si fa spalancare la bocca, a forma di sì.
La psicoanalisi rappresenta la struttura esattamente inversa di questa situazione di cui il dialogo fra Leuret e il suo malato non è che un esempio: l’aria torna ad essere l’elemento in cui le parole si propagano, l’uomo dalla parola mozzata questa volta è il medico, la lenta presa di coscienza che si oppone alla confessione. Forse, dietro questo “ritorno all’aria” della follia, c’è stata una mutazione molto importante nello spazio immaginario della follia: a metà del XIX secolo ha cessato di essere imparentata con l’acqua e si è messa a fraternizzare con il fumo. Importanza della droga (soprattutto dell’oppio) che sostituisce l’ubriachezza come modello minuscolo e artificiale della malattia; balzo in primo piano della sindrome allucinatoria (la quasi-percezione preoccupa più della falsa credenza); la follia considerata come un altro mondo nuvoloso, diafano, incoerente, ma ostinato, che in sovrimpressione disturba il mondo reale; idea che la follia scardini l’ordine e il tempo (perdita del senso del presente) più che la logica e il giudizio. La schizofrenia, nel paesaggio in cui la nostra ragione sognatrice si sorprende a scoprirla, non è per la melanconia ciò che può essere il fumo velenoso per l’acqua nera di uno stagno?
Ai nostri giorni la follia non è più acquatica. Talvolta l’acqua esige altre confessioni.
L’acqua stavolta non nasconde ma disvela, in un susseguirsi costante di realtà e follia.
Per concludere, un connubio tra aria ed acqua: la nebbia.
Strano, vagare nella nebbia!
È solo ogni cespuglio ed ogni pietra,
né gli alberi si scorgono tra loro,
ognuno è solo.
Pieno di amici mi appariva il mondo
quando era la mia vita ancora chiara;
adesso che la nebbia cala
non ne vedo più alcuno.
Saggio non è nessuno
che non conosca il buio
che lieve ed implacabile
lo separa da tutti.
Strano, vagare nella nebbia!
Vivere è solitudine.
Nessun essere conosce l’altro
ognuno è solo.
Nella poesia di Herman Hesse, si capisce quanto la nebbia avvolga ed inglobi tutto quello che circonda ed ogni oggetto, animato o inanimato che sia, sembra rimanere solo. Forse l’autore propone anche un parallelismo tra la nebbia e la vecchia, l’avanzare del tempo, e di come tutti noi, piano piano perdiamo amici, familiari e rimaniamo soli in nostra unica compagnia.