La cosa più semplice del mondo

Raymond Carver non è fra i miei autori preferiti. Capirete quanto trovi paradossale io stesso il fatto che, se dovessi indicare solo tre brani di narrativa o di poesia fra quelli che amo di più, ebbene tutti e tre sono opera di Carver (“Una pacchia”, “Cattedrale” ed “Ultimo frammento”). Da anni mi interrogo sulla questione ed ormai non posso che accettarla così com’è. L’unica constatazione che mi è possibile è che evidentemente questi brani hanno avuto su di me l’effetto di una rivelazione sorprendente: hanno squarciato un velo, tolto una benda dagli occhi. Voglio concentrarmi solo sul terzo, “Ultimo frammento”; sì per il contenuto, ma anche in virtù del senso (anche biografico) che ha per l’autore stesso: è il suo epitaffio, il che lo fa suonare come una sorta di testamento poetico. Rimando all’articolo di Antonio Spadaro su RaiLibro (o ancor meglio al testo che gli ha dedicato, “Carver – un’acuta sensazione di attesa”, Edizioni Messaggero) altre considerazioni, soffermandomi solo sul punto per me essenziale.

Intanto, per chi non lo conoscesse, il brano:

Ultimo frammento (Late fragment):

And did you get what
you wanted from this life, even so?
I did.
And what did you want?
To call myself beloved, to feel myself
beloved on the earth.

E hai ottenuto quello che
volevi da questa vita, nonostante tutto?
Sì.
E cos’è che volevi?
Potermi dire amato, sentirmi
amato sulla terra.

Poeti, scrittori, ma anche scienziati, filosofi e forse un po’ tutti noi pensiamo probabilmente verso la fine della vita a cosa lasceremo e ci teniamo che sia qualcosa di importante, che lasci un segno della nostra presenza, che faccia sentire un po’ la nostra mancanza: una testimonianza di quel che abbiamo realizzato, del fatto che abbiamo combinato qualcosa di buono e val la pena di esser ricordati per questo.

La letteratura, visto che di questo stiamo parlando, abbonda di racconti sull’amore; vale anche per il cinema e la musica, vale per la nostra vita quotidiana, per le discussioni che facciamo con gli amici.

Ma ecco la sottigliezza: si parla sempre dell’amore che si prova, dell’amore che si dà; il senso generale di molte, moltissime opere è quanto l’autore ami una certa persona (amore ricambiato, perduto, ferito, deluso, tradito, donato, ma che procede sempre dall’autore all’altro). Siamo tutti pronti a dilungarci in minuziosi racconti di quanto abbiamo sofferto per un abbandono, quanto siamo rapiti dalla visione della persona che ci sta accanto, quanto ci dedichiamo al suo benessere.

Una domanda a bruciapelo: quante opere vi vengono in mente in cui l’autore parli di quanto si senta amato? Ci ho pensato un po’ ed ho avuto difficoltà a fare un elenco.

Ecco la sorpresa di Carver: ciò che ci lascia di sé è una cosa che nemmeno ci racconta, semplicemente ci fa sapere di averla ottenuta. Non ha alcun interesse a descrivercela, tanto ci basti. Leggessimo solo quello, non ci direbbe niente di lui.

Tutto qui?

Eppure, questa cosa così semplice è una rivelazione che giunge alla fine di un percorso, come se si trattasse di una scoperta finale, conclusiva.

Nasciamo in una famiglia che ci ama (se tutto va bene), dunque la nostra prima esperienza è proprio quella dell’essere amati; appare ridicolo che Carver ci dica che alla fine del suo percorso esistenziale ha scoperto una cosa che tutti abbiamo sin dai nostri primi minuti di vita. Ma l’amore dei genitori è ovvio, lo possiamo dare per scontato: non abbiamo bisogno di meritarcelo, c’è già e c’è prima di noi e nonostante noi.

Quando usciamo dalla famiglia che ci ha generato ed incontriamo il mondo esterno, non c’è alcuna garanzia in tal senso, il che ci porta a pensare che questo amore dobbiamo conquistarcelo. Gli altri ci ameranno per quel che faremo per loro, in un’ottica che nella cultura di oggi è sempre più di tipo “prestazionale” (la radice di questo pensiero è a mio avviso in un radicamento sempre maggiore dell’individualismo, a discapito di una visione comunitaria dell’esistenza – ma non mi voglio dilungare su questo). L’altro è innanzitutto estraneo e viene vissuto nelle sue potenzialità disturbanti e vincolanti; è troppo spesso un ostacolo all’espressione di noi stessi. Eppure ne abbiamo bisogno, perché di fatto abbiamo bisogno non solo di amare, ma anche e soprattutto di essere amati.

In un’ottica individualistica, la cosa più difficile non è però accettare di poter amare (responsabilizzante, vincolante, castrante, impegnativo etc.), ma accettare la possibilità di esser degni di ricevere. La convinzione che ciò non sia scontato spesso crea una vera e propria “blindatura”: l’amore ricevuto, se gratuito, suona quasi poco plausibile, qualcosa da cui addirittura difendersi per evitare tranelli.

Una cosa così semplice va quindi riscoperta, perché scontata e banale non lo è affatto. Carver sembra dirci: ci ho messo una vita per capire che era tutto qui.

Leggi i 6 commenti a questo articolo
  1. Andrea Monda ha detto:

    Anche per me Carver non rientra tra i miei autori preferiti.
    Lo preferisco come poeta di cui conosco alcune poesie (anch’io amo molto, come Cristiano “Pacchia” e “Ultimo frammento”) ma non lo amo come narratore, nemmeno
    “Cattedrale” mi ha “acceso”…Però questa riflessione di Cristiano sì, mi ha acceso, mi ha “rivoluzionato”, cioè mi ha fatto vedere le cose dall’altro lato, rovesciando la prospettiva. In fondo è quello che dice Carver, la sua ultima parola coincide con la prima, il sentirsi amato. E’ una serie di rivoluzioni, insomma: Carver che rivoluziona Cristiano e Cristiano che rivoluziona me. Mica male. Chiudo con un riferimento al mio amato Chesterton: il “messaggio” che fuoriesce dalla lettura gastoniana di Carver è il medesimo che scaturisce dalla lettura di ogni opera, narrativa, poetica, saggistica di Chesterton, il cui “ultimo frammento” è la sua riflessione presente all’inizio dell’Autobiografia uscita postuma nel 1937:
    “Questo fu il mio primo problema, quello di indurre gli uomini a capire la meraviglia e lo splendore dell’essere vivi”.

  2. Katia ha detto:

    Letta questa riflessione ho subito sentito il bisogno di lasciare un commento, ma era come se non riuscissi a trovare le parole giuste per esprimere il mio pensiero, pur essendomi soffermata a lungo. Le ho trovate grazie alla liturgia ed al Vangelo di questa domenica. Credo che il bisogno di Carver, sul finire della propria vita, sia il bisogno che anima e dovrebbe animare ogni giorno, ogni istante, ciascuno di noi, ma ancor di più ciascuno di noi dovrebbe esercitarsi, con buon senso e costanza, a saper riconoscere il “dono” che tutte le persone che incontriamo posseggono e sono. Nessuno di noi “non sa fare niente” in questa vita, ma tutti siamo “speciali”. Esercitarci a fare questo significa “voler bene” e, soprattutto “lasciarsi volere bene”. Credo che il punto fondamentale sia proprio questo…. per sentirsi amati bisogna “lasciarsi volere bene!”.

  3. Tita ha detto:

    Forse è una stupidata quello che scrivo, colpita anch’io dalla riflessione di Cristiano che mi ha fatto rileggere il breve testo di Carver per fermarmi sul verbo:
    dirmi, sentirmi amato, non solo esserlo.

    Essere amato ed anche sapere di essere amato può essere scontato, ma non è sentirlo.

    Per poter dire, sussurrare o gridare la gioia di essere amati o, come bilancio di una vita, di esserlo stati, occorre averlo sentito, sperimentato.
    E questa esperienza è sempre una scoperta,
    un’illuminazione che porta con sé la meraviglia
    e lo splendore dell’essere vivi

    Quanta responsabilità per chi ama, quanta disarmata semplicità in chi chiede di poter sentire e non vuole accontentarsi di surrogati.

  4. Marco ha detto:

    Concordo pienamente con il commento di Katia, e mi spinge a scrivere, per la prima volta, in Bombacarta, perchè esprime chiaramente quanto avverto come vero da un pò di tempo, e cioè la centralità del “lasciarsi amare”, lasciarsi voler bene (da un uomo, da una donna… da Dio).

    E’ il primo passo nel (ri)assaporare il valore dell’amore, ma sperimento esistenzialmente, come spesso sia difficile: come noi sovente ci… amiamo troppo poco, per lasciar entrare l’amore di altri, e soprattutto di un Altro, che al suo amore, non pone invece alcuna condizione…

    Venendo a Carver, è un autore che sta pian piano catturando la mia attenzione sempre di più. Sto leggendo un suo illuminante piccolo manuale di scrittura (“Niente trucchi da quattro soldi”), e dopo aver letto la recensione di Antonio Spadaro su “Letture” del libro che contiene le sue poesie, mi sono precipitato ad ordinarlo.

    Marco

  5. Angela C ha detto:

    “Sentirsi degni di ricevere” è, forse, il merito di chi impara ad amarsi.
    Cammino d’obbligo. Faticato e accidentato.

    La stagione dei grandi sogni, alcuni assurdi altri ardui, la viviamo tutti; poi c’è quella delle illusioni infrante. Ma quando il rammarico per aver mancato ciò che sognavamo di diventare si è sciolto, inizia l’abbozzo di ciò che diventeremo: un’evoluzione tutta da costruire non più un’aspettativa angosciante da soddisfare.

    E pare un’evoluzione l’accettazione pacifica di sé: imparare ad amarsi. E diventa quotidiano e pacificatore biasimarsi ma assolversi per una consapevolezza in più; vergognarsi e imparare a recuperare la vergogna come prospettiva di crescita anziché celarla, mistificarla o trasformarla in sfida e ribellione; maturare una giusta assertività forgiata all’esperienza, consapevoli che l’una rincorre l’altra e viceversa.

    Quale l’orizzonte che svela il cammino ?…. lento si affina un gusto nuovo per la vita. E amare, amarsi o sperare di essere amati non sono più impellenze ma piaceri del vivere.
    Forse è una dimensione. Certo una conquista e una vittoria.
    Ha lo stesso stupore che suscita l’alba: per quanto attesa è sempre improvvisa

    Grazie Cristiano !

  6. Marica ha detto:

    Grazie Cristiano. Il bisogno d’amore è componente dell’animo umano, straziante e fondamentale. Si dice che si riesca ad amare nella maturità, avanzati studi di ambito psicologico rivelano l’impossibilità d’amare da parte di una personalità definita “del bambino” ,in quanto amare implica il trionfo di un’anima formata goccia su goccia da un lungo percorso. Esistono anche altri 2 livelli oltre il bambino..
    l’adulto e il genitore. In sintesi: il bambino/prende, l’adulto/scambia e il genitore/dona. Sono livelli dello spirito, un pò come quando Nietzche parlava dello spirito del cammello (che si fa carico delle responsabilità), del leone (che impara a dire: Io voglio!) e dello spirito del fanciullo che è puro ma comprende anche i livelli antecedenti. Ho apprezzato il brano “Ultimo frammento” e stranamente non mi sono stupita delle conclusioni. Secondo me era ovvio, la vita è una ricerca disperata del “sentirsi amati su questa terra”, una ricerca della propria anima, un percorso ad incognite..poi si scopre man mano a svelarle, quando ci si trova tra le mani dei punti soglia dove qualcosa si rompe e le maschere cadono. In profondità siamo la stessa anima in vite e corpi differenti. Forse non la stessa anima ma la sostanza è quella. Siamo fatti d’acqua, sangue, sensazioni, passioni.
    Cos’ altro mi dovrebbe stupire?
    ps. Bel pezzo!
    M.R.

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