La cittadella kafkiana di Mervyn Peake
«Gormenghast, ovvero l’agglomerato centrale della costruzione originaria, avrebbe esibito, preso in sé, una certa qual massiccia corposità architettonica, se fosse stato possibile ignorare il nugolio di abitazioni miserande che pullulavano lungo il circuito esterno delle mura inerpicandosi su per il pendio, semiaddossate le une alle altre, fino alle bicocche più interne che, trattenute dal terrapieno del castello, si puntellavano alle grandi mura aderendovi come patelle a uno scoglio. Questa fredda intimità con la mole incombente della fortezza era concessa alle abitazioni da leggi antichissime. Sui tetti irregolari cadeva, col variare delle stagioni, l’ombra dei contrafforti smangiati dal tempo, delle torrette smozzicate o eccelse e, enorme fra tutte, l’ombra del Torrione delle Selci che, pezzato qua e là di edera nera, sorgeva dai pugni di pietrame nocchiuto come un dito mutilato puntando come una bestemmia verso il cielo».
Comincia così la trilogia di Gormenghast, la monumentale saga che Mervyn Peake – poeta, romanziere, pittore, illustratore, reporter – compose tra il 1946 e il 1959, pressoché in parallelo al capolavoro di Tolkien. Nel suo mondo, però, non troverete artefatti incantati né eserciti, non viaggi presso continenti remoti o popoli esotici e tanto meno scuole di magia. Allora cos’è Gormenghast? È un castello «infinito e insensato come una giornata tenebrosa», un «desolato formicaio di pietra» di cui nessuno conosce le proporzioni. L’addossamento ipertrofico di aggettivi e subordinate ne rispecchia
«Mura alte e sinistre, come banchine di moli, o segrete per i condannati, svettavano nell’aria acquosa o curvavano maestose in archi prodigiosi di pietra crudele. Perduti tra le nubi, i picchi scoscesi del monte Gormenghast sembravano rizzare i capelli – i ciuffi fradici di erbacce. Contrafforti e altre costruzioni irriconoscibili incombevano sulla testa di Ferraguzzo come carcasse di navi sfasciate, o mostri marini incagliati dalle bocche e dalle fronti grondanti, frutti beffardi di mille tempeste. Uno dopo l’altro, in tutte le pendenze, i tetti salivano e scendevano davanti a lui; una dopo l’altra, giù in basso, le terrazze splendevano cupe sotto la pioggia, e le loro pietre dimenticate danzavano e cantavano scrosciando».
Siamo agli antipodi della cittadella rinascimentale costruita a misura d’uomo, secondo una precisa pianta geometrica che l’osservatore esterno può individuare subito e il cittadino, dall’interno, percepisce nell’armonia degli spazi: siamo nella dissennatezza di un organismo metropolitano che si sgretola senza che nulla di nuovo venga costruito. Una necropoli. Un’architettura del tutto arbitraria, inabitabile come ogni Legge che smarrisce il proprio ruolo di mezzo per elevarsi a fine autofondante e indiscutibile. Il capolavoro di Peake merita di essere conosciuto per molte ragioni tra cui, innanzi tutto, l’intensità visionaria. Perché più che un luogo concreto Gormenghast è un’entità metafisica, che si estende fino a coprire il mondo intero:
«Da quel punto, il castello si alzava sull’orizzonte come la gigantesca scogliera di un continente; un litorale rosicchiato da innumerevoli insenature e morso in profondità da baie ombreggiate. Un continente, con un assembramento di isole al largo delle coste; isole di tutte le forme che una torre può assumere; arcipelaghi interi; istmi e promontori; tetre penisole di pietra frastagliata – un panorama inesauribile, rispecchiato in ogni dettaglio dalle paurose profondità sottostanti».
Gormenghst è un arrovesciato Castello kafkiano da cui non si può fuggire: nulla esis
te che non sia riferito ad esso, prigione di cerimoniali immemori di cui nessuno conosce più il
Articolo parzialmente pubblicato su Letture n. 625
Cos’è Orthanc e cosa Barad Dur; l’addossamento del Potere cieco la cui vista spazia senza abbracciare l’armonia, alla cima di un essere dine a se stesso chè è fagocitare terreo e senza prospettiva di contro alla similare ipertrofia di un castello vario e vasto come un continente. Cos’è il potere dinanzi all’occhio di essere piccoli dallo sguardo differente, siano i Tito, i Frodo e i tanti altri figli della mezzanotte che dal fantastico approdano al realismo magico della realtà che si frastaglia laddove, come scrisse Holderlin (e come mi riferì altrettanto Savia Bocca)”tutto è intimo”.
Interessantissimo post! Mi colpice soprattutto l’inedita definizione dei disegni dei bambini (messa in parallelo con lo stile di Peake): meravigliosi, paurosi, sproporzionati. Abituati a ingabbiare il bambino nelle rassicuranti categorie del morbido e carino, perdiamo di vista la loro creativita’ netta, libera, spiazzante, allucinata.
Non conoscevo Peake, ma questa sua fantasia aggressiva ora mi attira….
Allora, solo oggi ho letto “La ballata della bomba volante” di Peake (Interlinea, 2001) e Alessandro Zaccuri, qui in veste di traduttore, scrive nell’introduzione: «Gormenghast è anzitutto Il castello di Kafka contemplato dall’interno: non un luogo al quale non si può accedere ma, in modo altrettanto angoscioso, un luogo dal quale è impossibile evadere».