La strada (Cormac McCarthy)

Quando la parola della letteratura giunge ad incarnare l’indicibile siamo in presenza di un grande libro. E ne La strada, l’ultimo romanzo di Cormac McCarthy, è il mistero dell’irriducibilità della vita che prende corpo nel viaggio drammatico di un padre e di un figlio non ancora adolescente. Siamo negli Stati Uniti di questi tempi, ma del mondo che conosciamo non è rimasto quasi nulla. Una catastrofe ha ridotto la terra ad un deserto di alberi bruciati e di cenere. Il sole è quasi completamente scomparso dietro ad un cielo di piombo e le notti sono cieche, impenetrabili, dominate da un’oscurità che “fa male alle orecchie a forza di ascoltare”, il solo suono udibile lo fa il vento gelido tra i tronchi nudi e anneriti. Il freddo non dà tregua e i due camminano verso sud spingendo sulla strada un carrello di un supermercato e facendo attenzione a non essere avvistati da altri sopravvissuti, molti dei quali si cibano di carne umana. La sopravvivenza dipende essenzialmente dal reperimento del cibo, ma le città sono state razziate da tempo e solo una vecchia mela ritrovata sottoterra o alcune scatolette nascoste nella dispensa segreta di una villa abbandonata consentono di resistere ancora e di andare avanti. Ma la resistenza è soprattutto interiore perché nel mondo ormai non c’è più traccia di bellezza, nulla che possa far pensare ad una rinascita e suscitare una speranza. Nulla tranne il figlio, nulla tranne il padre, due uomini coperti di stracci che si trascinano strusciando i piedi nella cenere. Non c’è alcuna ragione per credere in un futuro, ma il padre sente di avere un compito assegnatogli da Dio, quello di proteggere il bambino. Sporco, ridotto pelle e ossa, questo figlio che la notte geme per il freddo gli appare come un “calice d’oro, buono per ospitare un dio”. È lui che protegge con il calore del proprio corpo e a lui sono destinate le briciole di cibo e le parole d’amore per convincerlo a proseguire e a nutrire una speranza a cui però non sa dare un nome. È la straordinaria e misteriosa forza interiore del padre che si rinnova ogni giorno nella relazione con il figlio, quella che la madre del bambino non ha saputo coltivare sparendo in un bosco per darsi la morte in nome del “nulla eterno”, il solo orizzonte rimastole. Eppure sarà proprio il bambino ad aiutare il padre a dare un nome a questa speranza. Rifiuterà di tenere la pistola con quel ultimo colpo che dovrebbe spararsi qualora il padre cadesse nelle mani dei cannibali, sarà lui a preoccuparsi di un vecchio solo incontrato lungo la strada e a convincere il padre a compiere un folle gesto di carità condividendo del cibo essenziale alla loro sopravvivenza. Ma soprattutto supplicherà costantemente il padre di rimanere sempre uno dei “buoni”, quelli che non mangiano gli altri uomini, quelli la cui tensione è verso la conservazione del nucleo più profondo della propria umanità malgrado tutto. Un nucleo che il bambino intuisce essere il solo e ultimo bene da preservare, senza il quale non esiste alcuna salvezza dal male (Ce la caveremo, vero, papà?/ Sì. Ce la caveremo./ E non ci succederà niente di male. / Esatto. / Perché noi portiamo il fuoco. / Sì. Perché noi portiamo il fuoco.). E la salvezza nasce nella/con/per la relazione tra i due e non solo dal sacrificio estremo del padre per il bambino. Mentre i due arrancano faticosamente in direzione del mare, Cormac McCarthy, senza dubbio il più grande scrittore americano vivente, reinterpreta profondamente il mito del viaggio “on the road” rompendo una tradizione letteraria. Il viaggio è la risposta a una chiamata viva quanto inafferrabile, un intimo invito a mettersi in cammino verso una destinazione ignota il cui senso si rivela solo lungo la strada. Non più dunque l’illusione della fuga e la celebrazione della schiavitù dell’io in un viaggio che, quando non culmina nell’autodistruzione, è comunque di ritorno. Padre e figlio non torneranno mai indietro perché la tensione che muove il loro cammino è quel moto originario della vita di cui l’uomo è tempio sacro e il cui esito è una comunione profonda che, anche nell’attraversamento di un mondo ridotto a nulla, promette di non estinguersi mai. La meta è indefinibile, solo intuita, ma talmente forte da farsi già presente e viva nell’interiorità dei viaggiatori, mistero che si incarna in un’esperienza che padre e figlio percepiranno come di “salvezza”. Le condizioni drammatiche di questo viaggio sono i gradini di un’ascesi in cui ci si mette in gioco per scegliere o meno il valore di quella luce primordiale senza la quale viene meno la ragione ultima dell’essere uomini. Questo insegnamento è l’eredità che il padre lascerà al figlio quando, sfinito dagli stenti e dalla fatica, verrà meno e il testimone passerà ad un altro sopravvissuto che accetterà di prendersi cura del bambino e di continuare con lui questo viaggio. Il prodigio si compie nella narrazione stessa che, senza mai ricorrere ad astrazioni, si serve di una lingua estremamente concreta e secca, uno stile asciutto che ricorda molti racconti della Bibbia di cui Cormac McCarthy è da sempre un grande lettore.

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