Scrivendo oltre, sempre oltre, si va incontro all’imprevisto…
Inserisco, col suo permesso, una riflessione di Gianni De Martino suscitata dalla lettura di Abitare nella possibilità.
Sì, Antonio, scrivendo oltre, sempre oltre, si va incontro all’imprevisto… Occorre essere intrepidi, disposti a lasciarsi sorprendere da un tratto inatteso: magari un pugno, una cornata dall’invisibile.
È la scrittura meno gratuita che esista, la più pericolosa. Viene irresistibilmente in mente la storia di Sheerazade: “Racconta una bella storia o ti uccido.” È a questo “tirannico” impulso scrittorio (i romantici direbbero “ispirazione”) che ci si sottomette, o meglio si ubbidisce nel corso dell’atto dello scrivere?
In ogni caso occorre sorvegliare le parole, non solo le emozioni e i sentimenti, e rendersi accoglienti: mettersi in un angolo, in posizione femminile, vivendo nel tempo dell’intervallo degli altri, sospesi a una virgola come in attesa di un dettato…
Nello stesso tempo, però (morendo e risorgendo nello spazio bianco, ad ogni punto o a capo) si è anche, paradossalmente, in posizione vigile, maschile, perché oltre a ricevere si sceglie, si organizza, si passa ciò che si riceve. Scrivere, ovvero “passare” il tempo.
Nell’alternanza di maschile e femminile, di fattori consci e inconsci, si procede di diritto e di rovescio, come quando si lavora a maglia (di questo passo, e lo dico come cospirando in una parentesi, se non proprio santo, lo scrittore si allena a diventare perlomeno un bravo sarto…).
La scrittura come sartoria, quindi. Ma quella delle Parche, dal momento che il corpo scrive fra culla e bara, vale a dire tra due pulsioni, attenti al filo della vita e alle forbici della Parca (di solito la vecchietta taglia nel vivo).
E scrittura anche come ring, arena. “Forse ciò che avviene nel campo letterario è senza valore se rimane ‘estetico’, anodino, esente da sanzioni, se non c’è nulla, nello scrivere un’opera, di equivalente a quello che per il torero è il corno aguzzo del toro” (Leiris).
Perché tanta ironia ? Continuo a pensare che l’ironia nasca proprio dal timore, variamente consapevole, di poter essere incornati, scrivendo.
“Basta riflettere alla storia della letteratura moderna – osservava Fachinelli – a quante volte vi ritornino, in opere talvolta decisive, le auto descrizioni degli scrittori ‘in quanto scriventi’, spesso ironiche, e poi le riscritture e gli auto rifacimenti, per poter concludere che qui si tocca un nodo essenziale della questione“.
È la questione dell’ “atto dello scrivere”, in uno stato ambiguo e mal conosciuto, in cui si sconta la rapida percezione di un limite e il tentativo di oltrepassarlo, scrivendo oltre, sempre oltre, per non arrivare mai in nessun posto e accorgersi, a una svolta, di essere semplicemente attraversati da un’immensa distanza.
È proprio come ricevere un pugno, non se ne esce se non leggermente trasformati. Forse la letteratura serve ad allenare lo spirito a qualche trasformazione. In ogni caso, dopo essere stato attraversato da un’immensa distanza, mi rendo conto di non poter raggiungere a volo quel che desidero e mi consolo come posso dicendomi che finalmente posso risparmiarmi ogni viaggio. A volte mi dico anche, con Freud, che zoppicare non è peccato.
Mah! È quel che capita, talvolta, nell’atto dello scrivere. A patto di non scendere nell’arena come certi cazzari che fanno piroette senza il toro. Auguriamoci dunque un toro, un vero toro nero di scrittura. E – dal momento che parliamo di letteratura, con riferimento alla palude della letteratura italiana, medio-italiana, di oggi – auguriamoci anche, perché no?, che soffi il vento.
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