Sgradevole è brutto
Ieri, lunedì 3 maggio, ho partecipato come relatore alla presentazione del saggio “La falce spezzata. Morte e immortalità in Tolkien” (Marietti), un incontro moderato da Saverio e con relatore, oltre a me, anche il giornalista e saggista Roberto Arduini. Bel po’ gente, bella gente, bel dibattito.. ma prima nel pomeriggio ero stato alla presentazione di un altro libro, presso la Casa del Cinema a Roma. Il libro era quello dell’amico Diego Mondella “Sgradevole è bello”, un saggio (forse il primo in Italia) sul regista americano Todd Solondz. È intervenuto Roberto Cotroneo, noto critico letterario e ha fatto un discorso che non mi ha convinto del tutto. Lo avevo già visto sempre alla Casa del Cinema che difendeva spassionatamente il film (sgradevole anch’esso) Lourdes, e anche in quella occasione non mi aveva convinto del tutto. Provo a sintetizzare il discorso di Cotroneo che è partito proprio dal titolo del saggio di Mondella per affermare che viviamo in un’epoca molto ideologica, checché se ne dica, e l’ideologia dominante è quella riassumibile in questa frase: una cosa vale se piace a moltitudini. Per cui chi scrive un libro, chi fa un film lo fa nei canoni rigidi del mercato, uniformandosi alle ferree leggi della commercialità. E invece un’opera d’arte dovrebbe sfuggire a questa logica e far pensare il fruitore, costringerlo ad essere attivo, riflettente, e non subire passivamente un’opera tesa solo al suo gradevole relax. Ha citato come film “canonici” (cioè commerciali) Mission Impossible e invece come film d’autore (cioè intelligenti) proprio Solondz che ha il merito di fare film che appunto fanno pensare lo spettatore. La svolta storica a favore dell’ideologia commerciale è stata tra gli anni ’60 e ’80 quando, ha citato Cotroneo, film come quelli di Antonioni, libri come quelli di Eco, e spettacoli teatrali come quelli di Bene, hanno riscosso un grande successo commerciale, per cui si è detto che gli autori dovevano anche realizzare opere di largo successo, pena la scomparsa e la rimozione che, da oltre 20 anni è attuata nei confronti degli autori “eccentrici” che non si piegano a tale logica. La speranza è che, secondo il critico, i giovani (dai 15 ai 25 anni) grazie a Internet e ad altri fattori, oggi sono molto più aperti e capaci di cogliere i buoni film d’autore non considerandoli per niente “eccentrici”, mentre i più grandi, dai 25 ai 45 anni, sono ormai una “generazione perduta”.
Stavo per alzare la mano autodenunciandomi come “perduto” e per fare qualche domanda che giro a voi qui: i film migliori che ho visto negli ultimi 10-15 anni sono quelli d’animazione, in particolare quelli della Pixar, un’azienda molto forte dal punto di vista commerciale: sono perduto irrimediabilmente? La Pixar è anche creativa…o non è possibile? Possono esistere film commerciali e anche intelligenti? C’è forse una differenza tra commerciale e popolare? Questa sua ricostruzione non è forse, questa volta sì, un po’ ideologica?
Non ho potuto fare tutte queste domande perché sono scappato alla presentazione del suddetto libro su Tolkien, questo autore commerciale che ha commesso il peccato di aver scritto il libro più letto al mondo dopo la Bibbia..già, la Bibbia, ma non è forse “la più grande e la più bella storia mai raccontata?”
Per finire 2 annotazioni e una battuta:
1) amo Woody Allen perchè è un regista americano, cioè ferocemente anti-intelletuale (vedi foto qui sopra con il poster di Casablanca, capolavoro “canonicissimo”);
2) considero Antonioni ed Eco due degli autori più sopravvalutati e noiosi del ‘900 italiano;
3) ieri sono passato dalla Falce spezzata (di Tolkien) al martello dell’ideologia (di Cotroneo)
Quanto scrivi mi fa pensare a un passaggio di un bel libro letto di recente, Paura di cambiare di Francesco Erspamer.
Parlando dei tre diritti naturali formulati nella dichiarazione di indipendenza americana – il diritto alla vita, il diritto alla libertà e la ricerca della felicità – Erspamer afferma che oggi, «duecentocinquanta anni dopo Jefferson, dei tre diritti, quello che, almeno nel mondo occidentale, è più disatteso, pare proprio il terzo – e quel tanto o poco di svago, se non di felicità, che ci è comunque assicurato, lo fornisce l’industria della cultura di massa».
Il fallimento della cosiddetta cultura elevata viene attribuito a un suo atteggiamento rivolto esclusivamente verso il passato e di sostanziale chiusura (se non indifferenza o ostilità) al presente. E’ un’attitudine snob, elitaria, conservatrice, che mira a intimidire, alimentando nel pubblico un senso di colpa, un peccato originale che preserva il privilegio di chi di questa cultura è detentore, e stabilisce una aristocratica discontinuità tra gli intellettuali e la massa.
Mi piace dunque la tua apertura alla contemporaneità, il coraggio di prendere posizione nel presente, di difendere opere e autori ancora non protetti dalla raffreddata autorevolezza di un canone, ancora animati dalla imprevedibile effervescenza del divenire.
Il favore di un pubblico ampio non può costituire un marchio di impurità, ma va anzi compreso nelle sue motivazioni, avvalorato per la sua dignità.
La critica non dovrebbe temere di dare valutazioni, sui classici come sui contemporanei, sulle opere più impegnate come sul pop; senza stabilire delle gerarchie a priori, ma tentando di comprendere in che modo la loro ricezione influenzi il presente, o come l’odierna percezione ne determini l’evoluzione. In sostanza, di quale traccia siano testimonianza, della o sulla modernità. Sia nel caso in cui questa traccia risulti particolarmente effimera, destinata a esaurirsi nel giro di una stagione, nel ricordo dei gadget dimenticati in un cassetto; sia che cambi in maniera duratura le modalità percettive di una generazione.
Quando si parla di “generazione” o si usano altre categorie onnicomprensive che annullano la specificità di singoli autori e opere non si salva nessuno. Su la Repubblica di oggi c’è una lunga intervista a Angelo Guglielmi, critico militante fondatore del Gruppo ’63, che ci conferma ancora una volta la fine del “romanzo” (altra categoria) ovvero di qualsiasi romanzo. Sentite qua:
Il romanzo è un genere obiettivamente in crisi. Yehoshua sostiene che responsabile della crisi del romanzo europeo è la democrazia la quale, con la sua vocazione egualitaria, ha reso impossibile la figura dell’eroe. Quando si uscirà di questa crisi? Quando inventeremo, lo dice Eco, una nuova mitologia, giacché quella della partenza e del ritorno, è stata vissuta dall’intera civiltà occidentale ed è ormai definitivamente consumata.
Per dirne una, così dicendo, Guglielmi si sbarazza di Cormac McCarthy e ne vanifica la letteratura visto che tutta l’opera di questo scrittore americano si fonda sull’esperienza del partire e del tornare in tutta la sua ampiezza. Continuiamo così, facciamoci del male.
Il cinema non è arte o per dirla meglio non si fa del cinema per fare dell’arte. Il cinema è prima di tutto “entertainment”. È per definizione qualcosa che deve divertire lo spettatore e che deve essere compreso da più persone possibili. Tutto il resto viene dopo. L’arte la capiscono in pochi (i pochi che la pensano come l’artista). Questo non toglie che un film possa raggiungere livelli artistici altissimi. Ma se ragioniamo un momentino sui film che possono essere considerati opere d’arte ci accorgiamo subito che tutti(o quasi)nella storia del cinema hanno riscosso, chi più e chi meno, un certo successo. Questo perché nel cinema l’opera d’arte non nasce dagli intellettuali che studiano ogni minimo dettaglio da dietro le loro scrivanie, ma da quei registi (artigiani) che hanno il coraggio di rinunciare ad alcune loro idee e la capacità di imporne altre, anche all’interno di un mondo viziato come quello di Hollywood in cui regna la legge del successo. Prendo ad esempio il più grande regista di tutti i tempi Francis Ford Coppola: i suoi più grandi capolavori li ha realizzati in quel periodo in cui i suoi film nascevano da un duro scontro tra lui e le case produttrici. Ora che ha dichiarato di voler dirigere solo più film indipendenti non ne azzecca più una e i suoi film si rivelano confusi e privi di senso. Quello che voglio dire è che all’interno della “fabbrica dei sogni” il capolavoro è quel film in cui la visione creativa del regista è ben combinata con le pretese commerciali di Hollywood. Il buon film nasce dal contrasto che esiste tra “il sogno” del regista e l’ “industria” hollywoodiana. Registi come Spielberg hanno saputo integrarsi benissimo all’interno di questo mondo senza sopperire alle richieste del mercato e imponendo le loro idee (basti pensare ad un film come “Salvando il soldato Ryan” che è un film di sicuro successo ma in cui sono presenti anche scene di 10 minuti come quella iniziale che si reggono solo grazie alla potenza evocativa dell’immagine). Non sono un grande fan del cinema indipendente o d’autore perché lo ritengo una scappatoia di fronte alle difficoltà che un regista deve pur sapere affrontare all’interno di un mondo commerciale come quello di Hollywood. In oltre è poco utile alla maturazione del regista che si fossilizza sulle proprie idee e che non si apre al confronto. L’artista all’interno del cinema non può essere lasciato libero perché andrebbe totalmente fuori controllo. I tempi si allungherebbero a dismisura (farebbe ripetere ogni scena mille volte finché non otterrebbe un risultato perfetto) , i prezzi lieviterebbero sempre più, il film sarebbe lunghissimo (e noiosissimo) perché guai a chi taglia anche una sola scena (che fa parte dell’idea dell’artista e che quindi è inviolabile). Il produttore ha quindi il potere di contenere le follie artistiche del regista e questo potere, se è usato intelligentemente, può anche salvare un film.
Non ho visto Lourdes. Ma vivo immersa in una realtà lavorativa in cui le rigide leggi della commercialità (per citarti, caro Andrea) sono la guida assoluta di ogni mia giornata. E in verità, l’uniformarsi a determinate regole che quasi in automatico portano dei frutti (un successo commerciale, editoriale o cinematogarfico, poco importa) non sono ai miei occhi così “negative”. Preferirei definirle “sfidanti”. E, forse, anche creative. Il punto di partenza è sempre quello di creare qualcosa che abbia in sè della positività: che diverta il pubblico, che soddisfi il cliente, che faccia guadagnare l’azienda, lo scrittore, il regista. E fin qui nulla di male. Il problema sta piuttosto nel “modo” con cui tutto questo viene fatto. Possiamo anche chiamarla intelligenza. O eccentricità. Qui, secondo me, sta il nocciolo della questione. I latini dicevano “est modus in rebus”: nulla di più vero. La differenza fra commerciale e popolare? Magari non esiste. Un film commerciale può essere anche popolare. le due definizioni non si escludono. Dunque un film commerciale può anche essere intelligente. Tutto dipende, poi, dagli occhi con cui si guarda. Oltre a guardare è necessario vedere: è la soglia sulla quale entra l’intelligenza…
Non pretendo di risolvere la questione. Lancio solo uno degli infiniti pensieri che il tuo post ha sollevato in me (vista anche la mia quotidianità). E mi schiero al tuo fianco come “perduta”: vedrei (come ben sai) Monsters & Co almeno una volta al giorno!
ma in questo drammatico aut aut tra prodotto di consumo ed elitarismo d’intellighentja, non è che ci si dimentica qualcosa…? tratti banalmente umani tipo i sentimenti, il coinvolgimento emotivo, ecc.?
i grandi classici sono sempre stati popolari tra i loro contemporanei… Euripide, Dante, Shakespeare, Cervantes, Dostoevskij… tutti splendidi successi di cassetta. e oso dire che facessero non solo pensare, ma addirittura sentire. oso dire che un’opera che fa solo pensare è più monca di un filmetto che fa solo ridere. sì, perché non solo è altrettanto monca, ma ha pure aggravante della spocchia.
non è che, invece che fare sponda contro sponda, converrebbe che umilmente ognuno dei due argini imparasse qualcosa dall’altro? tornasse a dialogarci come ha sempre fatto? non è che può tornare nuovamente a scorrerci in mezzo il tumultuoso, vivo e imprevedibile fiume dell’Arte?
perché senza sponde l’acqua diventa imbevibile; stagna, e serve solo allo sguazzo di gracidanti ranocchi