Angeli e cicale di Didier Rimaud
L’editrice Ancora nella collana di poesia L’Oblò ha pubblicato una antologia di poesie di Didier Rimaud, gesuita francese, dal titolo Angeli e Cicale. Il curatore e traduttore del volume è Eugenio Costa, gesuita anch’egli. L’imprevisto accostamento del titolo ben riassume la spiritualità e l’estetica del poeta-sacerdote: il mondo come evidente rimando, inevitabile accesso, alla trascendenza da cui è informato.
– Tu m’hai voluto a guardia sugli spalti:
attendere il tuo giorno, annunciare il chiarore
mentre la luce sale sulle lunghe notti umane.
Così recita l’incipit di Un adorato invito, prima poesia della silloge e sorta di dichiarazione di un fare poetico che riconosce la propria investitura dall’alto. Il compito del verso di Rimaud è infatti quello di testimoniare «i segni del Regno» per l’uomo del suo tempo, l’irruzione esultante della salvezza cristiana nelle tenebre del mondo («Mi sono fatto corriere della buona novella, / tuo messaggero, tuo agente di fiducia»). Il verso è lo strumento “umano” a disposizione del poeta, con cui coniugare «parole, angeli e cicale», strumento guidato dallo Spirito, affinché si possa sciogliere in un canto di lode. Si ritrova qui quello stesso sentimento di meraviglia che ha informato la poesia di un altro grande gesuita, Gerard Manley Hopkins, aedo di un mondo «carico della grandezza di Dio», elettrizzato cioè da una presenza creatice sempre in movimento che lo fa vibrare vivificandolo. Entrambi questi poeti vedono avvampare di Spirito la terra dell’uomo.
Poesia della presenza, quella di Rimaud, dunque: una presenza, la cui finitezza è stata “sanata” dalla promessa cristiana, voce dell’unico Uomo in grado di sconfiggere il peccato e la morte. Ed è proprio la fiducia nella presenza del Dio-con-noi a far sì che lo sguardo del poeta non si faccia ingenuamente univoco e devoto: la riflessione di Rimaud, infatti, non intende arretrare di fronte alle atrocità del mondo. Come sottolinea Eugenio Costa, nella sua toccante introduzione, quello del poeta è « un cuore che ricorda e si interroga, si lascia ferire dalla durezza del vivere, e del far morire». Ma quale amore mai è una poesia costituita da un lungo elenco di orrori inflitti dall’uomo al suo simile: vagoni piombati, baracche immonde, campi, forni, fosse… Eppure si leva dall’abisso una chiamata ad essere qualcos’altro: l’essere umano è fatto per vivere in corpi «lisci e levigati / come dei frutti!».
La risposta di Rimaud, la sua speranza nel cambiamento possibile, sta nella “forza” della colomba: proprio nella poesia intitolata A forza di colomba si dispiega il suo impegno civile che, nell’apparente inadeguatezza della colomba, ripone la forza della perseveranza, della fede, della pazienza, dell’amore; l’unica, seppur difficilissima via, per contrastare il male del mondo.
Insomma, la poesia del gesuita francese non è poesia del ripiegamento interiore e tantomeno della riflessione solipsistica: è sguardo acuto sul reale, è testimonianza della grandezza della creazione, è sprone ad un’elevazione spirituale di una creatura chiamata senza indugi a partecipare, rimettendosi nelle mani del Dio fattosi carne, ad un processo di creazione in atto.
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