Ti ho vista che ridevi
Tornato in Calabria per la pausa estiva, il primo libro in cui mi sento di infilare il naso è intitolato Ti ho vista che ridevi (Rubbettino, 208 pagine, 14 euro) e porta la firma del collettivo Lou Palanca. Per chi non ne ha sentito parlare, Lou Palanca è un’esperienza di scrittura collettiva che richiama, già dal nome, il lavoro portato avanti da Luther Blisset (prima e da Wu Ming poi).
Immerso nel romanzo scopro il fenomeno, a me ignoto, di un’emigrazione individuale, femminile, che negli anni 60 spinge tante giovani calabresi fino addirittura nelle campagne langarole rimaste orfane delle contadine del luogo, attratte dalla grande città e dal mito dell’emancipazione. Calabrotte, calabresi, Napoli, eravamo delle donne oneste, pulite, lavoratrici che qui hanno trovato una vita e ci si sono arrampicate sopra. Un’altra vita. L’unica possibile. Dora Lucà, costretta dal padre ad abbandonare alle cure della sorella un figlio che non doveva nascere, a partire verso l’ignoto, è una di queste donne. Esco a fare due passi e chiedo ai miei amici prima, poi alle mie zie anche più anziane se anche qui a Verzino sono passati i bacialè, così chiamati i ruffiani che combinavano i matrimoni, che cercavano in giro per la Calabria ragazze da maritare e mostravano poi ai contadini langaroli le foto di queste giovani belle, possenti, abituate alla fatica, ancora immuni al richiamo della fabbrica torinese.
Se di recente sembra essersi ridestata sui quotidiani e sulle riviste online e una certa attenzione e sensibilità per il sud, questo libro rappresenta senza dubbio un altro modo, forse anche troppo consapevole e farcito di sfumature e filoni narrativi, di raccontare altri possibili meridioni. E l’idea, preziosa, di una salvezza che viene da fuori, da lontano. Sono sempre gli altri che ci salvano scrive Carlo Petrini nella prefazione. Così è grazie ad Annarita Calogero, sposata Bogliotti, è grazie a Santina Paletta, sposata Accomasso, partite per lavorare una terra di cui fino al giorno prima non avevano mai sentito parlare, se oggi le Langhe non sono popolate da paesi fantasma, se i contadini piemontesi hanno avuto dei figli a cui tramandare un cognome. Ma poi passa il tempo e non me ne faccio una ragione di alcune cose. Ma perché non usate l’olio comincio a chiedere? Eh, non so quanto tempo è passato prima di capire che qui l’olio d’oliva non ce l’avevano mica.
Da Riace ad Alba, dal sapore del pesce stocco all’odore dei tartufi, dalle parole di Vito Teti all’eredità di Fenoglio e Pavese, sono tante le ragioni per leggere questo romanzo che riesce nel recupero di una memoria e di una lezione importante eppure troppo spesso dimenticata. Come canta Gianmaria Testa: eppure lo sapevamo anche noi, l’odore delle stive, l’amaro del partire. Lo sapevamo anche noi. Di alcune di queste ragioni, dell’esaltazione del valore della dignità che abbraccia molti dei personaggi minori, delle luci e delle ombre che ho trovato a mio giusto in questa narrazione, mi piacerebbe continuare a parlare a chiunque fosse curioso. Intanto vi auguro buona lettura.
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