Ancora una pagina
A chi di noi, da bambino, non è mai capitato di chiedere a genitori, nonni o zii di non smettere di leggere la favola che stavamo ascoltando. “Ti prego, ancora una pagina!”.
Non solo per prolungare le ore di veglia, ma soprattutto per il desiderio di continuare a stare dentro quella storia, proprio quella, che ci stava prendendo, ci stava portando lontano e anche perchè nella lettura di un adulto, nelle sue pause, nella sua voce artefatta in corrispondenza dell’entrata in scena di qualche personaggio, ecco farsi reale davanti ai nostri occhi il protagonista con tutte le sue avventure.
In una parola riuscivamo a “vedere” la storia. Questo è “il bello” delle favole quando siamo piccini e poi dei romanzi, delle poesie, della letteratura tutta quando diventiamo più grandi e ci avviciniamo a storie nuove, alla portata dei nostri gusti personali, della nostra curiosità, della nostra incessante ricerca di quell’esperienza di cui abbiamo parlato la scorsa officina.
Come l’arte non può prescindere dall’artista, dalla sua capacità (che abbiamo chiamato talento) e dal suo mai finito e complicato rapporto con la realtà, così anche le storie non possono esistere senza qualcuno che le racconti in qualche modo, scrivendole o leggendole.
Scrivere storie significa rappresentare in una maniera personalissima una vicenda che è realmente esistita oppure una vicenda che non è mai accaduta se non nella fantasia di chi decide di donarle una vita.
Le storie, dunque, sono piene di vita. A volte “sgorgano” spontaneamente, altre volte passano attraverso un processo lungo, complesso e anche doloroso.
E le domande, come sempre, sono tante: che cosa sono le storie? La loro genesi è un processo naturale? Ovvero l’atto creativo accade senza che io possa oppormi? Oppure no? C’è una volontà? Un desiderio? Un bisogno?
[…]“In seguito, a primavera, un Drammaturgo Molto Famoso venne in visita alla mia scuola. Prima del suo arrivo, ci radunarono tutti nell’auditorium per farci vedere un vecchio film in bianco e nero con alcune Grandi Stelle tratto dal suo Grande Dramma. […] Il Drammaturgo Molto Famoso passò tre pomeriggi a rispondere alla stessa domanda da parte dei ragazzi. […] E ogni volta che uno gli diceva che voleva fare lo scrittore sospirava e spiegava: “Chi vuole diventare scrittore non lo diventa. Si scrive perché si deve, non perché si vuole”. […] da Paul Collins, Al paese dei libri.
“Sento di dover scrivere…”: c’è qualcosa dentro che mi impone di dare forma alle mie parole e ai miei pensieri, mi chiama e mi prende per mano.
Qui viene in mente quel verso di Dante (Purgatorio XXIV):
“I’mi son un che, quando
Amor mi spira, noto, e a quel modo
ch’e’ ditta dentro vo significando.”
Ditta dentro… Nessun verbo potrebbe spiegare meglio.
Chi o cosa “ci ditta dentro”? Ha un nome questo qualcosa? E soprattutto, come ci è arrivato dentro di me? Attraverso gli occhi, per contatto, per magia? Sento che gli devo dare ascolto, non posso ignorare questa chiamata. È forte, violento, ma anche avvolgente, ammiccante.
L’arte in generale e quindi anche la scrittura funzionano così: per agire devo essere disposto a mettermi in gioco con la realtà che mi circonda. E accettare la chiamata.
Devo guardare quello che è fuori di me con attenzione (a lungo direbbe Flannery O’Connor), lo devo fare mio, devo stabilire con esso una relazione concreta, fisica, agire su ciò che mi sta di fronte e comprenderlo (cum + prehendo), afferrarlo.
È questo il momento portentoso che mi apre al mondo, alla vita.
Dopo una prima fase in cui sono solo davanti al foglio bianco o al testo e provo quasi un senso di paura, arriva un istante in cui sento e vedo. Allora mi butto a capofitto, è come se mi mancasse l’aria, poi ecco che respiro a pieni polmoni: sono atterrato “dentro” la storia.
E posso percorrerla in lungo e in largo. Viverla.
Ma quanto è diversa la posizione di chi crea e di chi fruisce? Se scrivo ho un compito (una responsabilità per citare ancora la O’Connor) che mi impone di arrivare al nocciolo di quanto voglio dire, raccontare con l’impiego sincero e trasparente di tutti i miei sensi; se leggo ho un impegno di comprensione che mi richiede passione (nel senso profondo di patior) e che mi impone di operare una scelta: entrare nel testo per lasciarlo parlare liberamente e appieno. E lo stesso avviene con la musica, con la pittura, con la scultura, con il cinema.
L’apertura (sapersi aprire) è quel “gancio” fenomenale che rende un libro (o una qualsiasi opera) il libro (l’opera) che voglio continuare a leggere (conoscere). L’incipit di un romanzo, ad esempio, è un momento imprescindibile nel rapporto con la parola scritta di qualsivoglia autore.
Così come la prima nota di un brano, la prima parola di una poesia, la prima inquadratura di un film, la prima pennellata di un quadro.
Cos’è un incipit? È quel primo gradino che mi spinge verso, mi fa entrare nell’universo della storia che ancora non conosco e mi libera, mi spalanca le porte di un mondo che mi sta aspettando.
È solo un punto di partenza dunque? Un’apertura? È molto di più.
Niente è meglio di un esempio, uno fra tantissimi: l’incipit del secondo libro delle Cronache di Narnia, Il principe Caspian, di C.S. Lewis:
“C’erano una volta quattro ragazzi che si chiamavano Peter, Susan, Edmund e Lucy. Nel libro intitolato Il leone, la strega e l’armadio si racconta una loro straordinaria avventura: un giorno, infatti, avevano aperto un armadio magico e si erano trovati in un mondo completamente diverso dal nostro. In quel mondo erano diventati re e regine di una terra chiamata Narnia. Durante il periodo trascorso a Narnia, i quattro ragazzi si erano convinti di aver regnato per anni e anni, ma quando, attraversando di nuovo l’armadio magico, erano tornati in Inghilterra, il tempo sembrava non essere affatto trascorso. In ogni caso nessuno aveva notato la loro assenza, e i ragazzi avevano raccontato la straordinaria avventura solo a un uomo di grande saggezza. Tutto questo avveniva soltanto un anno prima; adesso i quattro se ne stavano seduti sulla panchina di una stazione ferroviaria, con le scatole dei giocattoli e i bagagli ammucchiati accanto a loro, perché la scuola sarebbe iniziata tra poco. Avevano fatto il viaggio insieme fino alla stazione, che era infatti un nodo ferroviario. […]”
Questo non è un semplice incipit; è un vero calcio nel sedere che ci butta a terra accanto alla panchina della stazione. A questo punto non possiamo far altro che andare avanti. Perché? Perché iniziamo a “vedere”, a trovarci lì insieme con i protagonisti. Perché “sentiamo” la storia, siamo risucchiati nel suo vortice, non possiamo fare a meno di proseguire il viaggio dentro la storia.
Eppure la questione non si esaurisce qui: chi decide che una storia è più importante di altre? Cosa rende una storia “importante”? O chi?
Quando una storia diventa arte, letteratura?
Se la letteratura (e la lettura) può essere un piacere, e quasi sempre lo è, se la scrittura può diventare un mestiere, la narrativa (ovvero le storie) diventa arte quando risponde ad una necessità, ad una esigenza profonda dell’uomo.
Il racconto (e anche il suo ascolto, la “tradizione orale”) si trova dentro il cuore dell’uomo, in ogni tempo e in ogni luogo della Storia: l’uomo accende il fuoco non solo per cucinare il cibo, ma anche per radunarsi attorno ad esso e raccontare, condividere storie, per riscaldarsi anche a quel “fuoco” che scaturisce dal racconto.
Nella letteratura e nell’arte in generale quando ha il sopravvento il mestiere ci troviamo di fronte ad un’opera ben fatta ma non veramente e profondamente bella, un’opera che definiamo virtuosistica; se invece vince il mistero l’opera che abbiamo davanti è frutto di una forza, di un’energia più grande dell’artista che non può fare altro che arrendersi all’evidenza dei fatti: DEVE CREARE.
Sul mistero e sulle storie mi piace chiudere con una citazione da G.K. Chesterton: “Le fiabe non raccontano ai bambini che i draghi esistono. I bambini sanno già che i draghi esistono. Le fiabe raccontano ai bambini che i draghi possono essere uccisi.”
Potere delle storie!
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