La magia della parola e dell’occhio

Ancora una volta l’editoriale che apre alla prossima imminente Officina fornisce più di uno spunto di riflessione. E ancora una volta BC si riconferma il “contenitore” dove le cose accadono e per una strana magia si incontrano e si incrociano pur provenendo da… galassie diverse.

Vorrei partire dalla parola “magia” e dall’intreccio (casuale?) di questo tema di Officina con una delle mie ultime letture, “Amatissima” di Toni Morrison, premio Nobel per la letteratura nel 1993.

Il romanzo è un affresco della condizione degli schiavi in America a pochi anni dalla fine della Guerra di Secessione: un dipinto della condizione femminile, uno spaccato crudo e potente del rapporto madre-figlia in una società dove essere donna e di colore era il mix di condizioni peggiori in assoluto. Una madre, due figlie; un crudele infanticidio e una vita, anzi tre vite che vanno avanti e si intrecciano senza lambire la storia più grande, quella con l’iniziale maiuscola. E la presenza (o le presenze) di spiriti, ombre così forti da essere reali.

A differenza di Roy Batty, Sethe, la protagonista del romanzo della Morrison, ha un profondo senso della narrazione, una capacità visionaria, sia di “vedere” fantasmi sia di scegliere le parole, cosa e come raccontare i suoi ricordi, la sua storia.

La Morrison esplora la dimensione del ricordo proponendolo in un’infinità di sfaccettature, tagli netti che compongono la narrazione. Nell’apparato critico che conclude il romanzo ci sono alcuni aspetti che si legano al tema scelto per la prossima Officina.

In particolare, l’attenzione che l’autrice dedica alla parola scritta e alla creazione, come in risposta ad un bisogno, di neologismi all’interno del testo: due su tutti, la parola rememory e il verbo disremember.

Rememory, con quel suffisso iterativo, indica sia il processo con cui il ricordo si forma, sia quello secondo cui la cosa viene poi ricordata. Un modo soggettivo che ognuno di noi ha per ricordare un certo avvenimento.

E poi disremember, il cui un duro suffisso dis- restituisce un senso appunto distruttivo: il ricordo che sfalda, smembra e disgrega la realtà, almeno in potenza e soprattutto per chi ne ha un vissuto doloroso e negativo.

Il ricordo impone un’azione e una scelta. Il ricordo è uno strumento di libertà. Il ricordo diventa narrazione che crea e annulla, memoria che tramanda e ignora: proprio come la parte conclusiva del romanzo in cui il ricordo del fantasma finisce per diventare una dimenticanza.

Nelle ultime pagine viene più volte ripetuta l’espressione “It was not a story to pass on” ossia non era una storia da tramandare, che si può agevolmente anche tradurre con non era una storia da ignorare. Un’antitesi che spiega una storia, una storia che pretende un’antitesi.

La vicenda narrata attraversa un mondo, quello di Sethe che porta i suoi ricordi – che poi sono la sua immagine – iscritti sulla propria pelle. Nella relazione con gli altri protagonisti le accade di incappare in ricordi che non sono i suoi, appartengono a qualcun altro: scopre così che esiste anche una dimensione oggettiva del ricordo, che ha una vita sua, percepibile in maniera differente da chi non ha vissuto quell’esperienza.

Questa osmosi di sensi diventa l’impasto di cui sono fatti i fantasmi. Questo vale, mi sembra, non solo per i fantasmi che abitano l’America dei bui secoli della schiavitù, ma anche per quelli che popolano i grandi spazi dell’America del Sud (basti pensare, per fare esempi concreti ma solo parzialmente sufficienti, ai romanzi di Márquez o della Allende). E, per rimanere più vicini, alle creature magiche e fantastiche della immensa tradizione popolare italiana e non solo.

Lo storytelling dei ricordi è il fil rouge di molte culture orali e la schiavitù degli afroamericani ne è uno degli esempi più noti. La narrazione da potente connettore con le radici e le parole di un continente perduto si fa canto e preghiera, gospel e jazz: per non dimenticare la lingua delle origini.

Lasciare forzosamente un posto per abitarne con sofferenza un altro: “Ho visto cose che voi umani…” e ci sentiamo subito trasportati in un ambiente altro da noi, un canto quasi che dice di mondi lontani; un posto che al momento del racconto non ci appartiene, in cui veniamo giocoforza catapultati e che rimarrà sempre separato da noi pur legandoci a sè in qualche modo.

Se il ricordo è una sorta di racconto personale che noi vediamo perfettamente, chi ci ascolta cosa vede?

Riesce sempre a dargli un sembiante? Il “nostro” sembiante?

È possibile dire ciò che vediamo, ma è ancora più probabile dire ciò che non vediamo. Perché in qualche modo lo abbiamo visto. O perché qualcun altro ci ha permesso di vederlo.

E qual è il tramite? La parola, la magia della parola. Ma anche l’occhio, la magia dell’occhio.

In breve, raccontare e vedere sono in una connessione strettissima. Come vedere e sapere nella lingua greca: so, conosco perché ho visto (οἶδα).

Ritorna il meccanismo dell’esperienza, fondativo per BC, ma soprattutto per le dinamiche di Officina.

 

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