Come si fa una passeggiata?
Dicesi passeggiata il “cammino compiuto per diporto o per esercizio igienico, spesso in compagnia di una o più persone e senza meta fissa; talvolta associato a un’idea di facilità”. La definizione è del dizionario Devoto-Oli.
Cos’è dunque la passeggiata? Un cammino senza meta. Basta così? Tutto qui? Certo, dopo i grandi discorsi della vita intesa come viaggio e al viaggio inteso come figura della vita nel suo complesso, parlare di passeggiata sembra quasi inopportuno: è una figura che appare troppo “debole”. La passeggiata non richiede grandi decisioni né grandi sforzi.
Eppure Ignazio di Loyola, il santo spagnolo del XVI secolo, non faceva alcuna fatica a trovare anche nel pasear, cioè nel paseggiare, una metafora per l’esercizio spirituale. Per lui il passeggiare è comunque un “esercizio”. Ma a che scopo? A che serve passeggiare? Solo a rilassarsi, a distendersi? Sì, “serve” solo a questo, in effetti.
Ma non finisce qui. Se l’uomo si rilassa e si distende, allora si apre. Non più teso in uno sforzo con un obiettivo preciso o una meta prefigurata, chi passeggia può ritrovarsi preparato e disposto a ricevere qualunque novità: a vedere il mondo con occhi nuovi, ad accorgersi di ciò che esiste (al di là del suo immediato interesse), a scoprire nuove relazioni tra le cose,… La passeggiata dispone l’animo all’arricchimento improvviso o insospettato in un libero confronto tra l’uomo e il mondo, fino a raggiungere i “fiori lontani” (Luciano Erba).
Il suo sguardo si fa così più lucido perché più ampio. Vede tutto perché non è “costretto” a veder nulla.
La passeggiata è l’occasione perché avvenga esattamente il contrario di ciò che Musil afferma quando paragona il suo uomo senza qualità a un insetto “che s’è smarrito in un campo di cui non conosce i colori di richiamo, e non vi si può fermare, benché lo desideri”. Certo, nella passeggiata gli usuali colori di richiamo non ci sono più. Ma questo ci costringe a una novità radicale. Lo stesso Musil ammette che questo “andare senza mèta e senza chiara destinazione” porta a sentire come se il corpo non appartenesse più a un mondo dove l’Io è racchiuso in piccoli condotti e tessuti nervosi, ma ad un mondo veramente nuovo.
Certo, per strada però può accadere veramente di tutto. Come accadde a don Abbondio: “Per una di queste stradicciole, tornava bel bello dalla passeggiata verso casa, sulla sera del giorno novembre dell’anno, don Abbondio…”. La passeggiata, proprio perché senza meta fissa, è aperta a qualunque incontro. Può accadere persino di dover prendere una decisione radicale e senza che ci sia tempo per pensare o per difendersi.
E così la passeggiata diventa un modo per prepararsi e disporsi ad accogliere un destino che sempre ci supera. Ci libera dalle agende e dai progetti troppo rigorosi, dalle comprensioni troppo rigide della vita per affidarci a un percorso di cui conosciamo l’origine, che ad ogni passo e ad ogni angolo può aprirci scenari nuovi e di cui la meta ci sfugge radicalmente. Se è vera passeggiata…
La passeggiata (se è vera passeggiata) mi sfugge nella sua globalità: la vivo e la “costruisco” passo dopo passo. Ma il senso della passeggiata in quanto tale, nella sua globalità, è indisponibile.
Intesa in questo senso, la passeggiata non si pre-vede! Si può semmai coglierne l’orientamento. Ma la meta è sempre “altra”. La meta è qualcosa che sta dentro e sotto ogni passo, ma resta radicalmente altro. Sta sempre al di là. La passeggiata è un processo in cui muoviamo un passo dopo l’altro.
E lo spazio di ogni singolo passo è il luogo in cui si gioca il senso e la meta… così “d’un tratto, scopro un nuovo sentiero/per la cascata” (R. Carver).
[in questi tempi di privazioni, passeggiare è uno dei pochi piaceri che possiamo ancora coltivare. Anche per tale motivo ripubblichiamo volentieri questo contributo apparso sul sito di BombaCarta nel 2005].
Riflessioni molto interessanti. Grazie.